AZIONI PROPRIE: QUORUM COSTITUTIVI E DELIBERATIVI
Azioni proprie e quorum assembleari (Cass. 2 ottobre 20198, n. 23950)
La Corte di Cassazione, con sentenza 2 ottobre 2018, n. 23950, afferma il seguente principio di diritto: «In forza del d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224, che ha modificato l’art. 2357-ter, comma 2, cod. civ., nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono incluse nel computo ai fini sia del quorum costitutivo, sia del quorum deliberativo».
Nel caso di specie, l’assemblea ordinaria in seconda convocazione di una s.p.a., che deteneva azioni proprie per il 10% del capitale, aveva provveduto, con il voto favorevole del 47% circa del capitale sociale, all’approvazione del bilancio d’esercizio e deciso la distribuzione degli utili conseguiti.
La questione, che oggi si ripropone rispetto alla nuova formulazione dell’art. 2357-ter, comma 2, c.c. – se, cioè, nelle assemblee delle s.p.a. “chiuse” che hanno in portafoglio azioni proprie, queste debbano computarsi sempre nei quorum, anche deliberativi, oppure solo allorché la maggioranza sia determinata con riferimento al «capitale sociale» e non quando essa sia determinata in relazione al «capitale rappresentato dagli intervenuti» – era già stata ampiamente dibattuta sotto la vigenza della precedente disciplina («il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea»).
La stessa Suprema Corte, in tempi recenti, aveva ritenuto che per «capitale» dovesse intendersi il capitale sociale, onde non si potessero qualificare le azioni proprie come azioni rappresentate o presenti in assemblea, perché la società, nonostante detenga proprie azioni, non può essere socia di se stessa, né componente di un proprio organo interno (Cass. 16 ottobre 2013, nn. 23541 e 23540, in Banca, borsa e tit. cred., 2014, II, 83 ss.). Nella sostanza, nella precedente disciplina, la maggioranza necessaria per deliberare si determinava tenendo in considerazione l’ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all’assemblea e non le azioni proprie di cui la società era titolare.
La medesima questione si ripropone, dunque, oggi, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224 al comma 2 dell’art. 2357-bis, c.c., che distingue fra società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, nelle quali le azioni proprie sono conteggiate solo ai fini della regolare costituzione dell’assemblea ma non ai fini del quorum deliberativo (art. 2368, comma 3, cod. civ.), in tal modo permettendo più agevolmente il raggiungimento della maggioranza per approvare la proposta assembleare; e società “chiuse”, nelle quali le azioni proprie sono in ogni caso incluse nel computo ai fini del calcolo delle maggioranze richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea.
Secondo la Suprema Corte, l’espunzione dell’espressione «nel capitale», e l’inserimento dell’espresso riferimento alle «maggioranze», ha avuto proprio lo scopo di chiarire il significato della norma, nella quale
– il “computo” è l’operazione volta ad individuare il denominatore delle partecipazioni sociali rilevanti a tal fine;
– il “calcolo” è il conteggio del numero dei presenti (nel quorum costitutivo) o dei voti favorevoli all’approvazione della deliberazione (nel quorum deliberativo), allorché raggiungano la quantità di azioni necessaria a ritenere l’assemblea regolarmente costituita o la proposta approvata;
– il denominatore è, di regola, pari al 100% del capitale sociale, salvi i casi in cui questo si riduca per legge, per la presenza di azioni prive del diritto di voto in assemblea ordinaria (art. 2368, comma 1, cod. civ.) o di azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto, ove esista una speciale disposizione di legge in tal senso (art. 2368, comma 3, cod. civ., nel suo esordio).
Nella pronuncia si evidenzia come, rispetto alla previsione dell’art. 2368, comma 3 («Salvo diversa disposizione di legge le azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell’assemblea. Le medesime azioni e quelle per le quali il diritto di voto non è stato esercitato a seguito della dichiarazione del socio di astenersi per conflitto di interessi non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione»), il disposto del comma 2 dell’art. 2357-ter («Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea») si colloca, in sostanza come deroga espressamente prevista dal legislatore («Salvo diversa disposizione di legge…»).
Il dettato normativo è nel senso che, nelle società per azioni “chiuse”, le azioni proprie debbano essere sempre conteggiate nel calcolo non dei soli quorum assembleari costitutivi, ma anche di quelli deliberativi: la nuova disposizione, invero, non lega affatto il calcolo alla diversa circostanza se la base per il medesimo sia il capitale sociale oppure quello rappresentato in assemblea, imponendo di calcolare in ogni caso le azioni proprie. La ratio è di impedire che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri fra i soci, e più in generale che non ne risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale. Ne deriva che per l’assunzione della deliberazione dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione nella società per azioni occorre il voto favorevole di almeno la metà del capitale rappresentato dai soci intervenuti (art. 2369, comma 3, cod. civ.), ivi computate le azioni proprie.
Con riferimento alla previgente disciplina, si è rilevato, in dottrina, come la rilevanza delle azioni proprie ai fini del calcolo del quorum costitutivo dell’assemblea, ancorché il relativo diritto di voto sia sospeso, avesse lo scopo di impedire agli amministratori di favorire se stessi o il gruppo di controllo, influenzando la formazione della volontà assembleare (D’Attorre, Opa obbligatoria statutaria e sospensione del diritto di voto, in Giur. comm. 2008, 679; Bione, Commento sub art. 2357 ter, in Niccolini – Stagno D’Alcontres, Società di capitali. Commentario, I, Napoli, 2004, 374; Partesotti, Le operazioni sulle azioni, in Tratt. Colombo, Portale, 2, I, Torino, 1991, 440).
Allo stesso modo, il conteggio delle azioni proprie detenute dalla società in assemblea ha il fine di evitare che i soci che detengono la maggioranza del pacchetto azionario possano ulteriormente rafforzare la propria posizione (D’Alonzo, sub art. 2357-ter, in Abriani-Stella Richter, Codice commentato delle società, Torino, 2010).
La rara giurisprudenza che si è pronunciata ha in un primo momento affermato che «Ai fini del calcolo della maggioranza deliberativa dell’assemblea ordinaria di seconda convocazione di una s.p.a., nel cui patrimonio siano comprese azioni proprie, si deve tenere conto anche di queste azioni, se presenti in assemblea, con l’effetto che, ove siano presenti tutte le azioni rappresentanti l’intero capitale sociale, la predetta maggioranza è costituita dalla metà più uno del valore delle predette azioni» (Trib. Roma, 21 aprile 2004, in Società, 2004, 1411).
Successivamente, lo stesso Tribunale ha statuito che «La disposizione di cui all’art. 2357-ter, comma 2, ultimo periodo, c.c., che impone di computare le azioni proprie nel quorum deliberativo assembleare, non è applicabile qualora il quorum stesso non sia predeterminato in rapporto all’intero capitale sociale o, quando lo sia, non superi il 50%, venendo in questo caso in gioco la regola della maggioranza assembleare, basata soltanto sulla risultanza del voto esprimibile» (Trib. Roma, 14 giugno 2005, in Riv. not., 2006, 1584, con nota critica di Ungari Trasatti, Il rinvio dell’assemblea da parte della minoranza e controllo nel merito del presidente, a zioni proprie e quorum deliberativi particolari, normativa transitoria e maggioranze agevolate. Sul punto anche Granata, Assemblea ordinaria della società per azioni: calcolo della maggioranza assoluta, in prima convocazione, delle azioni proprie e quorum deliberativo, in seconda convocazione, in Giust. civ., 2005, 223).
Secondo la dottrina prevalente, con la quale è coerente la pronuncia della Suprema Corte, la ratio sottesa alla nuova formulazione della norma rimane la medesima: evitare che l’acquisto possa essere effettuato per creare artificialmente una maggioranza tramite la riduzione del numero di azioni necessarie per il quorum stessi. La modifica letterale che ha espunto il riferimento al computo delle azioni proprie “nel capitale“ e ha inserito le parole “delle maggioranze e” (delle quote), nonché la stessa Relazione al decreto del 2010 (argomento cui espressamente si richiama la sentenza in rassegna) secondo cui le azioni proprie sono sempre computate ai fini del calcolo anche quando la legge non assuma il capitale sociale a denominatore per il calcolo del quorum assembleare, porterebbe a ritenere che, a differenza di quanto avveniva in passato, dette azioni vadano computate anche ai fini della maggioranza nell’assemblea ordinaria di seconda convocazione, ove il quorum deliberativo sia ragguagliato non al capitale sociale ma quello rappresentato in assemblea (Bonavera, Computo delle azioni proprie ai fini del calcolo delle maggioranze in assemblea, in Società, 2012, 1278 ss.; Ungari Trasatti, Il computo delle azioni proprie nei quorum costitutivi e deliberativi, in Riv. not., 2013, 166 ss.; Zappalà, La nuova disciplina dell’acquisto di azioni proprie per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in Società, 2011, 1303 ss.; De Luca, Sub art. 2357-ter, in Commentario Gabrielli, Torino, 2015, 1195; Id., La società azionista e il mercato dei propri titoli, Torino, 2012,179. In giurisprudenza, Trib. Milano, 27 aprile 2012, in Società, 2012, 1278, con nota di Bonavera, cit., e in Giur. it., 2013, 81 ss., con nota di Bertolotti, Azioni proprie, quorum assembleari alla luce del (nuovo) comma 2 dell’art. 2357 ter c.c.).
Secondo altri, tuttavia, tale ricostruzione non sarebbe esente da una serie di obiezioni: dalla neutralità del riferimento alle “maggioranze”, che appare riferibile a tutti casi in cui debba essere calcolato un quorum assembleare, sia sul capitale totale sia su quello rappresentato; alla non vincolatività di quanto riportato nella Relazione al d.lgs. 224/2010 (sul punto, Notari, Il computo delle azioni proprie ai fini del calcolo dei quorum assembleari, in Riv. dir. soc., 2015, 520 ss.); al contrasto con il disposto degli artt. 2368 e 2369, c.c., per i quali le maggioranze vengono calcolate con riferimento al capitale rappresentato in assemblea, mentre le azioni proprie, non potendo intervenire in assemblea, non possono votare né essere computate ai fini del calcolo della maggioranza (Salafia, Storia dell’art. 2357 ter, comma 2, in Società, 2012, 165 e ss.; in giurisprudenza, App. Roma, 5 aprile 2012); alla circostanza che, in presenza di azioni proprie pari o superiori al 50% del capitale, sarebbe impossibile adottare delibere quali l’approvazione del bilancio e le nomina o revoca degli organi sociali e, in ultimo, lo stesso scioglimento della società per impossibilità di funzionamento dell’assemblea (Carbonetti, Azioni proprie e quorum assembleari, in Società, 2013, 168 ss., per il quale, non diversamente da quanto avveniva prima della novella del 2010, continua a valere la regola secondo cui nelle società chiuse le azioni proprie vanno computate solo quando il quorum deliberativo è ragguagliato al capitale, non quando esso è ragguagliato al capitale rappresentato in assemblea).
Va, infine, ricordata l’autorevole opinione che esclude la computabilità delle azioni proprie nei casi in cui la base di calcolo sia data dal “capitale rappresentato”. Le azioni proprie, infatti, non potrebbero reputarsi come “intervenute”, poiché, anzitutto, mancherebbe la ratio giustificativa dell’intervento, dato che esse non esprimono un voto né hanno un diritto all’informazione, essendo la titolare delle azioni la società stessa. Inoltre, se le azioni proprie fossero considerate come “intervenute”, non potendo le stesse votare, andrebbero considerate come azioni sempre “contrarie”, con un ingiustificato ed irragionevole potenziamento del potere della minoranza (Notari, Il computo delle azioni proprie ai fini del calcolo dei quorum assembleari, cit., 533 ss., in ripresa delle di Cass. 16 ottobre 2013, nn. 23541 e 23540, cit.).
Antonio Ruotolo e Daniela Boggiali
4 ottobre 2018
Azioni proprie e quorum assembleari (Cass. 2 ottobre 20198, n. 23950)
La Corte di Cassazione, con sentenza 2 ottobre 2018, n. 23950, afferma il seguente principio di diritto: «In forza del d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224, che ha modificato l’art. 2357-ter, comma 2, cod. civ., nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono incluse nel computo ai fini sia del quorum costitutivo, sia del quorum deliberativo».
Nel caso di specie, l’assemblea ordinaria in seconda convocazione di una s.p.a., che deteneva azioni proprie per il 10% del capitale, aveva provveduto, con il voto favorevole del 47% circa del capitale sociale, all’approvazione del bilancio d’esercizio e deciso la distribuzione degli utili conseguiti.
La questione, che oggi si ripropone rispetto alla nuova formulazione dell’art. 2357-ter, comma 2, c.c. – se, cioè, nelle assemblee delle s.p.a. “chiuse” che hanno in portafoglio azioni proprie, queste debbano computarsi sempre nei quorum, anche deliberativi, oppure solo allorché la maggioranza sia determinata con riferimento al «capitale sociale» e non quando essa sia determinata in relazione al «capitale rappresentato dagli intervenuti» – era già stata ampiamente dibattuta sotto la vigenza della precedente disciplina («il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea»).
La stessa Suprema Corte, in tempi recenti, aveva ritenuto che per «capitale» dovesse intendersi il capitale sociale, onde non si potessero qualificare le azioni proprie come azioni rappresentate o presenti in assemblea, perché la società, nonostante detenga proprie azioni, non può essere socia di se stessa, né componente di un proprio organo interno (Cass. 16 ottobre 2013, nn. 23541 e 23540, in Banca, borsa e tit. cred., 2014, II, 83 ss.). Nella sostanza, nella precedente disciplina, la maggioranza necessaria per deliberare si determinava tenendo in considerazione l’ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all’assemblea e non le azioni proprie di cui la società era titolare.
La medesima questione si ripropone, dunque, oggi, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224 al comma 2 dell’art. 2357-bis, c.c., che distingue fra società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, nelle quali le azioni proprie sono conteggiate solo ai fini della regolare costituzione dell’assemblea ma non ai fini del quorum deliberativo (art. 2368, comma 3, cod. civ.), in tal modo permettendo più agevolmente il raggiungimento della maggioranza per approvare la proposta assembleare; e società “chiuse”, nelle quali le azioni proprie sono in ogni caso incluse nel computo ai fini del calcolo delle maggioranze richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea.
Secondo la Suprema Corte, l’espunzione dell’espressione «nel capitale», e l’inserimento dell’espresso riferimento alle «maggioranze», ha avuto proprio lo scopo di chiarire il significato della norma, nella quale
– il “computo” è l’operazione volta ad individuare il denominatore delle partecipazioni sociali rilevanti a tal fine;
– il “calcolo” è il conteggio del numero dei presenti (nel quorum costitutivo) o dei voti favorevoli all’approvazione della deliberazione (nel quorum deliberativo), allorché raggiungano la quantità di azioni necessaria a ritenere l’assemblea regolarmente costituita o la proposta approvata;
– il denominatore è, di regola, pari al 100% del capitale sociale, salvi i casi in cui questo si riduca per legge, per la presenza di azioni prive del diritto di voto in assemblea ordinaria (art. 2368, comma 1, cod. civ.) o di azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto, ove esista una speciale disposizione di legge in tal senso (art. 2368, comma 3, cod. civ., nel suo esordio).
Nella pronuncia si evidenzia come, rispetto alla previsione dell’art. 2368, comma 3 («Salvo diversa disposizione di legge le azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell’assemblea. Le medesime azioni e quelle per le quali il diritto di voto non è stato esercitato a seguito della dichiarazione del socio di astenersi per conflitto di interessi non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione»), il disposto del comma 2 dell’art. 2357-ter («Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea») si colloca, in sostanza come deroga espressamente prevista dal legislatore («Salvo diversa disposizione di legge…»).
Il dettato normativo è nel senso che, nelle società per azioni “chiuse”, le azioni proprie debbano essere sempre conteggiate nel calcolo non dei soli quorum assembleari costitutivi, ma anche di quelli deliberativi: la nuova disposizione, invero, non lega affatto il calcolo alla diversa circostanza se la base per il medesimo sia il capitale sociale oppure quello rappresentato in assemblea, imponendo di calcolare in ogni caso le azioni proprie. La ratio è di impedire che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri fra i soci, e più in generale che non ne risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale. Ne deriva che per l’assunzione della deliberazione dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione nella società per azioni occorre il voto favorevole di almeno la metà del capitale rappresentato dai soci intervenuti (art. 2369, comma 3, cod. civ.), ivi computate le azioni proprie.
Con riferimento alla previgente disciplina, si è rilevato, in dottrina, come la rilevanza delle azioni proprie ai fini del calcolo del quorum costitutivo dell’assemblea, ancorché il relativo diritto di voto sia sospeso, avesse lo scopo di impedire agli amministratori di favorire se stessi o il gruppo di controllo, influenzando la formazione della volontà assembleare (D’Attorre, Opa obbligatoria statutaria e sospensione del diritto di voto, in Giur. comm. 2008, 679; Bione, Commento sub art. 2357 ter, in Niccolini – Stagno D’Alcontres, Società di capitali. Commentario, I, Napoli, 2004, 374; Partesotti, Le operazioni sulle azioni, in Tratt. Colombo, Portale, 2, I, Torino, 1991, 440).
Allo stesso modo, il conteggio delle azioni proprie detenute dalla società in assemblea ha il fine di evitare che i soci che detengono la maggioranza del pacchetto azionario possano ulteriormente rafforzare la propria posizione (D’Alonzo, sub art. 2357-ter, in Abriani-Stella Richter, Codice commentato delle società, Torino, 2010).
La rara giurisprudenza che si è pronunciata ha in un primo momento affermato che «Ai fini del calcolo della maggioranza deliberativa dell’assemblea ordinaria di seconda convocazione di una s.p.a., nel cui patrimonio siano comprese azioni proprie, si deve tenere conto anche di queste azioni, se presenti in assemblea, con l’effetto che, ove siano presenti tutte le azioni rappresentanti l’intero capitale sociale, la predetta maggioranza è costituita dalla metà più uno del valore delle predette azioni» (Trib. Roma, 21 aprile 2004, in Società, 2004, 1411).
Successivamente, lo stesso Tribunale ha statuito che «La disposizione di cui all’art. 2357-ter, comma 2, ultimo periodo, c.c., che impone di computare le azioni proprie nel quorum deliberativo assembleare, non è applicabile qualora il quorum stesso non sia predeterminato in rapporto all’intero capitale sociale o, quando lo sia, non superi il 50%, venendo in questo caso in gioco la regola della maggioranza assembleare, basata soltanto sulla risultanza del voto esprimibile» (Trib. Roma, 14 giugno 2005, in Riv. not., 2006, 1584, con nota critica di Ungari Trasatti, Il rinvio dell’assemblea da parte della minoranza e controllo nel merito del presidente, a zioni proprie e quorum deliberativi particolari, normativa transitoria e maggioranze agevolate. Sul punto anche Granata, Assemblea ordinaria della società per azioni: calcolo della maggioranza assoluta, in prima convocazione, delle azioni proprie e quorum deliberativo, in seconda convocazione, in Giust. civ., 2005, 223).
Secondo la dottrina prevalente, con la quale è coerente la pronuncia della Suprema Corte, la ratio sottesa alla nuova formulazione della norma rimane la medesima: evitare che l’acquisto possa essere effettuato per creare artificialmente una maggioranza tramite la riduzione del numero di azioni necessarie per il quorum stessi. La modifica letterale che ha espunto il riferimento al computo delle azioni proprie “nel capitale“ e ha inserito le parole “delle maggioranze e” (delle quote), nonché la stessa Relazione al decreto del 2010 (argomento cui espressamente si richiama la sentenza in rassegna) secondo cui le azioni proprie sono sempre computate ai fini del calcolo anche quando la legge non assuma il capitale sociale a denominatore per il calcolo del quorum assembleare, porterebbe a ritenere che, a differenza di quanto avveniva in passato, dette azioni vadano computate anche ai fini della maggioranza nell’assemblea ordinaria di seconda convocazione, ove il quorum deliberativo sia ragguagliato non al capitale sociale ma quello rappresentato in assemblea (Bonavera, Computo delle azioni proprie ai fini del calcolo delle maggioranze in assemblea, in Società, 2012, 1278 ss.; Ungari Trasatti, Il computo delle azioni proprie nei quorum costitutivi e deliberativi, in Riv. not., 2013, 166 ss.; Zappalà, La nuova disciplina dell’acquisto di azioni proprie per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in Società, 2011, 1303 ss.; De Luca, Sub art. 2357-ter, in Commentario Gabrielli, Torino, 2015, 1195; Id., La società azionista e il mercato dei propri titoli, Torino, 2012,179. In giurisprudenza, Trib. Milano, 27 aprile 2012, in Società, 2012, 1278, con nota di Bonavera, cit., e in Giur. it., 2013, 81 ss., con nota di Bertolotti, Azioni proprie, quorum assembleari alla luce del (nuovo) comma 2 dell’art. 2357 ter c.c.).
Secondo altri, tuttavia, tale ricostruzione non sarebbe esente da una serie di obiezioni: dalla neutralità del riferimento alle “maggioranze”, che appare riferibile a tutti casi in cui debba essere calcolato un quorum assembleare, sia sul capitale totale sia su quello rappresentato; alla non vincolatività di quanto riportato nella Relazione al d.lgs. 224/2010 (sul punto, Notari, Il computo delle azioni proprie ai fini del calcolo dei quorum assembleari, in Riv. dir. soc., 2015, 520 ss.); al contrasto con il disposto degli artt. 2368 e 2369, c.c., per i quali le maggioranze vengono calcolate con riferimento al capitale rappresentato in assemblea, mentre le azioni proprie, non potendo intervenire in assemblea, non possono votare né essere computate ai fini del calcolo della maggioranza (Salafia, Storia dell’art. 2357 ter, comma 2, in Società, 2012, 165 e ss.; in giurisprudenza, App. Roma, 5 aprile 2012); alla circostanza che, in presenza di azioni proprie pari o superiori al 50% del capitale, sarebbe impossibile adottare delibere quali l’approvazione del bilancio e le nomina o revoca degli organi sociali e, in ultimo, lo stesso scioglimento della società per impossibilità di funzionamento dell’assemblea (Carbonetti, Azioni proprie e quorum assembleari, in Società, 2013, 168 ss., per il quale, non diversamente da quanto avveniva prima della novella del 2010, continua a valere la regola secondo cui nelle società chiuse le azioni proprie vanno computate solo quando il quorum deliberativo è ragguagliato al capitale, non quando esso è ragguagliato al capitale rappresentato in assemblea).
Va, infine, ricordata l’autorevole opinione che esclude la computabilità delle azioni proprie nei casi in cui la base di calcolo sia data dal “capitale rappresentato”. Le azioni proprie, infatti, non potrebbero reputarsi come “intervenute”, poiché, anzitutto, mancherebbe la ratio giustificativa dell’intervento, dato che esse non esprimono un voto né hanno un diritto all’informazione, essendo la titolare delle azioni la società stessa. Inoltre, se le azioni proprie fossero considerate come “intervenute”, non potendo le stesse votare, andrebbero considerate come azioni sempre “contrarie”, con un ingiustificato ed irragionevole potenziamento del potere della minoranza (Notari, Il computo delle azioni proprie ai fini del calcolo dei quorum assembleari, cit., 533 ss., in ripresa delle di Cass. 16 ottobre 2013, nn. 23541 e 23540, cit.).
Antonio Ruotolo e Daniela Boggiali
4 ottobre 2018