FALLIMENTO E SOCIETA’ PUBBLICHE

La Corte di Cassazione, sez. I, con sentenza 2 luglio 2018, n. 17279, conferma l’assoggettabilità a fallimento di società in house partecipata da un ente pubblico locale. Si tratta di principio già affermato nella sentenza 7 febbraio 2017, n. 3196 (in CNN Notizie del 9 febbraio 2017, con commento Ruotolo – Boggiali, L’assoggettabilità a fallimento delle società a partecipazione pubblica, cui si rinvia per maggiori riferimenti giurisprudenziali e dottrinari).

Anche in questo caso, come nel citato precedente, si trattava di vicenda svoltasi in epoca anteriore al d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, il cui art. 14 assoggetta espressamente le società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

Le argomentazioni su cui si fonda l’affermazione della fallibilità della società in house sono in larga parte coincidenti con quelle espresse tanto nella sentenza del 2017, quanto e soprattutto con quelle contenute nella pronuncia del 27 settembre 2013, n. 22209, ribadendosi come «la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità».

Sotto tale profilo, si ricorda come, da un lato, l’art. 1 l. fall. esclude dall’area della concorsualità soltanto gli enti pubblici e non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile (compreso quindi l’art. 2221 c.c., che detta la regola di carattere generale della fallibilità di tutti gli imprenditori che esercitano attività commerciale); e, dall’altro lato, che le società pubbliche non possono esser equiparate, a questi fini, agli enti pubblici, non fosse altro perché per questi ultimi vale ancora la riserva di cui all’art. 4 della legge 20 marzo 1975, n. 70, che ne vieta l’istituzione se non in forza di un atto normativo.

Richiamati, quindi, tanto il disposto di cui all’art. 4, comma 13, del d.l. 6 luglio 2012 n. 95, applicabile ratione temporisal caso di specie (norma che ha previsto che le disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali) quanto le previsioni dell’art. 1, comma 3 e dell’art. 14 del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, la Cassazione afferma che tutte le società c.d. pubbliche, che svolgano attività commerciali,  quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultino effettivamente sottoposte, restano assoggettate al fallimento, al pari di ogni altro sodalizio nei cui confronti debbano trovare applicazione le norme codicistiche.

Antonio Ruotolo Daniela Boggiali

La Corte di Cassazione, sez. I, con sentenza 2 luglio 2018, n. 17279, conferma l’assoggettabilità a fallimento di società in house partecipata da un ente pubblico locale. Si tratta di principio già affermato nella sentenza 7 febbraio 2017, n. 3196 (in CNN Notizie del 9 febbraio 2017, con commento Ruotolo – Boggiali, L’assoggettabilità a fallimento delle società a partecipazione pubblica, cui si rinvia per maggiori riferimenti giurisprudenziali e dottrinari).

Anche in questo caso, come nel citato precedente, si trattava di vicenda svoltasi in epoca anteriore al d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, il cui art. 14 assoggetta espressamente le società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

Le argomentazioni su cui si fonda l’affermazione della fallibilità della società in house sono in larga parte coincidenti con quelle espresse tanto nella sentenza del 2017, quanto e soprattutto con quelle contenute nella pronuncia del 27 settembre 2013, n. 22209, ribadendosi come «la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità».

Sotto tale profilo, si ricorda come, da un lato, l’art. 1 l. fall. esclude dall’area della concorsualità soltanto gli enti pubblici e non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile (compreso quindi l’art. 2221 c.c., che detta la regola di carattere generale della fallibilità di tutti gli imprenditori che esercitano attività commerciale); e, dall’altro lato, che le società pubbliche non possono esser equiparate, a questi fini, agli enti pubblici, non fosse altro perché per questi ultimi vale ancora la riserva di cui all’art. 4 della legge 20 marzo 1975, n. 70, che ne vieta l’istituzione se non in forza di un atto normativo.

Richiamati, quindi, tanto il disposto di cui all’art. 4, comma 13, del d.l. 6 luglio 2012 n. 95, applicabile ratione temporisal caso di specie (norma che ha previsto che le disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali) quanto le previsioni dell’art. 1, comma 3 e dell’art. 14 del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, la Cassazione afferma che tutte le società c.d. pubbliche, che svolgano attività commerciali,  quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultino effettivamente sottoposte, restano assoggettate al fallimento, al pari di ogni altro sodalizio nei cui confronti debbano trovare applicazione le norme codicistiche.

Antonio Ruotolo Daniela Boggiali