Corte di Cassazione 21 gennaio 2020, n. 1185 e 25 febbraio 2020, n. 4956
La Cassazione, a breve distanza di tempo, è intervenuta con due distinti provvedimenti sulla questione della disciplina della mancata esecuzione dei conferimenti dovuti dal socio di s.r.l. di cui all’art. 2466 c.c.
Nel primo provvedimento (Cass. 21 gennaio 2020, n. 1185) si affronta il dibattuto tema se, per il caso di inadempimento limitato ad un aumento di capitale sociale (che presuppone, quindi, l’integrale liberazione della partecipazione originariamente sottoscritta in sede di costituzione della società), la società possa deliberare l’esclusione del socio moroso o se, invece, possa solo procedere alla riduzione della sua quota di partecipazione, limitatamente alla misura della parte non integralmente liberata.
In tale provvedimento la Corte muove, innanzitutto, dalla premessa secondo cui l’art. 2466 c.c. trova applicazione anche qualora il debito in capo al socio, rimasto insoddisfatto, derivi dalla sottoscrizione di un aumento di capitale, trattandosi di disposizione che mira a preservare l’effettività del capitale sociale.
La norma prevede, infatti, un procedimento in cui, dall’iniziale richiesta di adempimento entro trenta giorni rivolta al socio, si perviene, attraverso scansioni alternative o successive, all’azione giudiziale di condanna all’adempimento, alla vendita proporzionale ai soci secondo il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato, alla vendita all’incanto, e, infine, all’esclusione del socio, con la conseguente riduzione nominale del capitale sociale.
Secondo i giudici da tale disciplina si evince «come il procedimento abbia di mira, anzitutto, la tutela della situazione patrimoniale della società, tutela che non ha ragione di essere limitata al momento della sua costituzione e dell’inadempimento all’obbligo dei conferimenti iniziali, essendo essa applicabile – in via diretta, e non estensiva od analogica all’esecuzione dei conferimenti in sede di successivo aumento del capitale sociale».
Il medesimo principio è stato, peraltro, ribadito nel secondo provvedimento in commento (Cass. 25 febbraio 2020, n. 4956).
Ciò posto, in Cass. 1185/2020 si precisa che, in caso di esclusione del socio moroso, la riduzione del capitale ad essa conseguente si configura quale riduzione nominale per la parte corrispondente ai conferimenti non eseguiti e come riduzione reale per la parte che, invece, era stata liberata dai conferimenti effettuati dal socio. Le somme, infatti, che la società aveva riscosso al momento della sottoscrizione della partecipazione «vengono legittimamente “trattenute” dalla società, ai sensi dell’art. 2344 c.c., comma 2, e art. 2466 c.c., comma 3, andando a costituire una riserva, e non più la posta corrispondente al vincolo del capitale, sia pure sempre nell’ambito del patrimonio netto, di cui alla lettera A del passivo dello stato patrimoniale di bilancio».
Sennonché – proseguono i giudici – «tale meccanismo, esplicitamente previsto dalla norma con riguardo alla sottoscrizione parziale di un’unitaria operazione, non può tuttavia essere esteso al caso in cui il socio, in virtù di una precedente sottoscrizione attuata in fase di costituzione o anche di un pregresso aumento del capitale, fosse già tale, e senza debiti di conferimento, prima dell’aumento che abbia condotto alla morosità in tal modo sanzionata. In tale evenienza, il socio non potrà, invero, essere escluso, mentre la riduzione del capitale riguarderà, in modo corrispondente, solo la parte relativa alla sottoscrizione operata con riferimento all’aumento de quo».
Tale soluzione non appare incompatibile con i principi della “unitarietà” e “non frazionabilità” della quota sociale, in quanto se, da un lato, la quota di una società a responsabilità limitata è unica per ciascun socio, non potendo essa essere rappresentata da azioni (art. 2468 c.c., comma 1, c.c.), dall’altro lato essa può essere divisa, come si desume dalla lettera dello stesso art. 2466 c.c. nella parte in cui si prevede che la quota del socio moroso possa essere venduta “agli altri soci in proporzione della loro partecipazione”, al pari di quanto previsto nell’art. 2473 c.c., comma 4, c.c. per l’ipotesi del recesso del socio, nonché in ragione della pacifica alienabilità parziale della quota sociale, fatto salvo il caso in cui lo statuto esplicitamente contempli l’indivisibilità della quota di ciascun socio (la dottrina ha, in proposito, sottolineato che un’eventuale inammissibilità della cessione parziale della partecipazione risulterebbe al di fuori di ogni logica accettata dalla realtà economica. Così, Maltoni, La partecipazione sociale, in Caccavale, Magliulo, Maltoni, Tassinari, La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2004 ,175).
Sulla base di tali premesse, Cass. 1185/2020 afferma che «risponde dunque al precetto di legge, nonché ai principi di buona fede e correttezza i quali necessariamente informano anche i rapporti societari, che la procedura di annullamento della quota con corrispondente abbattimento del capitale sia intrapresa dall’organo amministrativo solo per la frazione della partecipazione sociale sottoscritta in occasione dell’aumento del capitale sociale rimasto in tutto o in parte ineseguito, e non per la parte di cui il socio fosse titolare prima della deliberazione di aumento stessa».
Ciò in quanto l’inadempimento, da parte di un socio, dell’obbligo di versare quanto sottoscritto in sede di aumento di capitale riguarda non l’intera quota posseduta dopo l’aumento e risultante dalla somma di questa con la partecipazione originaria, ma soltanto la porzione sottoscritta in sede di aumento di capitale, considerato che l’esecuzione di un aumento di capitale presuppone l’integrale versamento del capitale precedentemente sottoscritto e che, quindi, l’iniziale debito da conferimento fosse stato regolarmente, a suo tempo, adempiuto integralmente.
Conseguentemente, se, all’esito del procedimento di cui all’art. 2466 c.c., si perviene alla riduzione del capitale sociale, questa sarà operata solo per la parte corrispondente al conferimento dovuto in forza della sottoscrizione dell’aumento (costituendo, dunque, una riduzione in parte nominale, con riguardo alla quota non liberata, ed in parte reale, con riguardo al versamento parziale operato dal socio alla sottoscrizione dell’aumento) e non per l’intera misura della partecipazione, di cui il socio sia titolare.
Tale soluzione, secondo i giudici, appare coerente con l’interesse, non soltanto della società, alla conservazione del valore del capitale sociale, che costituisce la ratio sottesa all’intero procedimento previsto dall’art. 2466 c.c., il quale infatti procede, via via, dai rimedi endosocietari sino alla soluzione estrema della rinuncia a quel conferimento mediante la riduzione del capitale sociale.
Al contrario, la possibilità, per gli altri soci, di escludere definitivamente il socio inadempiente dalla società non appare rinvenibile nella ratio della disposizione in esame.
In conclusione, la Cassazione enuncia il seguente principio di diritto: «Nel caso di mora del socio nell’esecuzione dei versamenti, dovuti alla società a titolo di conferimento per il debito da sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale deliberato dall’assemblea nel corso della vita della società, il socio non può essere escluso, essendo egli titolare della partecipazione sociale sin dalla costituzione della società; pertanto, ferma la permanenza del socio in società per la quota già posseduta, l’assemblea deve deliberare la riduzione del capitale sociale solo per la misura corrispondente al debito di sottoscrizione derivante dall’aumento non onorato, fatto salvo solo il caso in cui lo statuto preveda l’indivisibilità della quota».
La Cassazione mostra, quindi, di aderire alla tesi secondo cui il socio deve poter conservare la posizione acquisita sino al momento dell’adesione all’offerta di sottoscrizione dell’aumento e che limita la vendita nelle forme previste dall’art. 2466 c.c. alla sola porzione di partecipazione sottoscritta in sede di aumento (sul tema v. Zanarone, sub art. 2466, in Della società a responsabilità limitata, Commentario Schlesinger, 2010, 405 e 421; a favore della possibilità della mera riduzione della partecipazione Cacchi Pessani, sub 2466, in Società a responsabilità limitata, Commentario Marchetti- Bianchi-Ghezzi –Notari, Milano, 2008, 216 ss.; Masi, sub art. 2466, in Società di capitali, Commentario Niccolini-Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 1444; Masturzi, sub art. 2466, in La riforma delle società, a cura di Sandulli e Santoro, Torino, 2003, 44; Perrino, Le tecniche di esclusione del socio dalla società, Milano, 1997, 270 ss.; Tassinari, sub art. 2466, in Il nuovo diritto delle società, Commentario Maffei Alberti, Padova, 2005, 1802, nota n. 5; per la tesi dell’esclusione del socio, fondata sull’unicità della quota, Valzer, La mancata esecuzione dei conferimenti, sub art. 2466, in S.r.l., Commentario Dolmetta –Presti dedicato a Portale, Milano, 2011, 227 ss. e 233 ss.; Alleca, L’intangibilità della posizione del socio di s.r.l., in Riv. Dir. Soc., 2017, 1087 ss. Propende per la prima soluzione, dando conto della problematicità della questione lo Studio del CNN n. 5396/I, Paolini, Questioni in tema di vendita in danno della quota del socio moroso di s.r.l., in Studi e materiali – Quaderni semestrali del Consiglio Nazionale del Notariato, 2006, 240 ss.).
Il secondo provvedimento in commento (Cass. 4956/2020), dopo aver ribadito che l’art. 2466 c.c. si applica tanto nel caso di costituzione della società, quanto in quello dell’aumento del capitale, afferma che detta norma, nella parte concernente l’esecuzione coattiva dell’obbligo di eseguire i conferimenti dovuti, non pare subire alterazioni sostanziali né in caso di scioglimento della società, né nell’eventualità di fallimento della medesima (fatta salva, in questo secondo caso, l'”integrazione” derivante dall’art. 150 l.fall.).
Qualche perplessità potrebbe, tuttavia, sorgere in relazione alla possibilità di sostituire il contraente moroso con altri soggetti, che, secondo i giudici, sarebbero «di per sé, ben difficilmente reperibili (come disposti a versare il conferimento dovuto), attesa la situazione in cui si trova oggettivamente a versare la società (dei cui conferimenti si discute)».
Peraltro, la Corte sottolinea che «a ben vedere, trattasi tuttavia di un ostacolo solo fattuale all’applicazione della disciplina di questa parte dell’art. 2466: in specie, nel senso che, ai sensi del comma 3, in ogni caso la concreta “mancanza di compratori” delle quote morose produce in via diretta la conseguenza che gli amministratori o i liquidatori della società – o, nel caso, il curatore fallimentare “escludono il socio, trattenendo le somme riscosse” (per precedenti versamenti che quest’ultimo abbia eventualmente compiuto)».
Daniela Boggiali e Alessandra Paolini
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Cassazione civile sez. I – 21/01/2020, n. 1185
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21680/2018 proposto da:
B.L., elettivamente domiciliato in …, presso lo studio dell’avvocato …, rappresentato e difeso dagli avvocati …, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
e contro
Citielle S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in …, presso lo studio dell’avvocato …, rappresentata e difesa dall’avvocato …, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 299/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, pubblicata il 31/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal cons. NAZZICONE LOREDANA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS Stanislao, che si riporta alle conclusioni scritte depositate;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato Camellini che si riporta;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato Moretto che si riporta al controricorso.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Bologna con sentenza del 31 gennaio 2018 ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale di Reggio Emilia del 27 dicembre 2013, la quale aveva disatteso, a sua volta, le domande proposte da B.L. contro la Citielle s.r.l..
Tali domande, per quanto riferisce la sentenza impugnata e come riportate integralmente in controricorso, quali conclusioni attoree di primo grado, avevano ad oggetto la domanda di condanna della società al risarcimento del danno per il rifiuto frapposto all’esercizio del diritto di ispezione del socio; l’accertamento del diritto del B. di compensare il debito da sottoscrizione per l’aumento di capitale deliberato dall’assemblea del 28 luglio 2010 con il credito del finanziamento soci, con condanna della società alla restituzione della somma di Euro 5.000,00 già versata; in subordine, l’accertamento del corretto versamento dell’intera somma dovuta per l’aumento; in ulteriore subordine, l’accertamento della propria perdurante titolarità nella quota di nominali Euro 4.000,00; infine, l’accertamento dell’illegittimità della propria esclusione e dell’assemblea” del 29 aprile 2011.
La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che:
– l’art. 2466 c.c. sulla c.d. vendita in danno non impedisce al socio di s.r.l. di esercitare il suo diritto di controllo sulla gestione sociale, ma, nondimeno, è corretta la pronuncia di rigetto della domanda risarcitoria, non essendo stato allegato, prima ancora che provato, nessun danno dal socio;
– fissato il termine per il versamento del residuo 75% del capitale sottoscritto, la sua scadenza ha reso legittimo il rifiuto dell’amministratore di accettare un pagamento tardivo, essendo ciò rimesso alla discrezionalità del medesimo e degli altri soci;
– non vi è prova dell’esistenza di finanziamenti da parte del socio, nè comunque avrebbe potuto il credito relativo essere utilizzato in compensazione, trattandosi di aumento del capitale a pagamento, che richiede il versamento di denaro contante;
– l’art. 2466 c.c. trova applicazione anche al debito da sottoscrizione di un aumento di capitale, non solo a quello per il conferimento iniziale, sorto in sede di costituzione della società;
– è legittima l’esclusione del socio in toto, pur in presenza di una mora parziale, come dimostra l’espressa previsione del diritto della società di trattenere le somme già riscosse dal socio moroso.
Avverso questa sentenza propone ricorso il soccombente, sulla base di tre motivi. Si difende con controricorso la società, proponendo un motivo di ricorso incidentale.
Il ricorrente ha depositato la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2466 c.c., il quale non potrebbe applicarsi al debito da sottoscrizione di un aumento del capitale sociale; inoltre, l’amministratore era in conflitto di interessi, in quanto socio, e gli altri due soci si trovavano ad avere, in tal modo, accresciuto la propria quota alla misura del 50% ciascuno, mentre neppure gli è stata liquidata la quota di Euro 4.000,00 nominali conferita all’atto di costituzione della società.
Con il secondo motivo, lamenta la violazione dell’art. 2466 c.c., perchè la quota sociale è divisibile, onde l’organo amministrativo avrebbe dovuto procedere alla vendita o all’annullamento solo della parte proporzionale non liberata, senza attaccare la quota già detenuta sin dalla costituzione della società, e tenuto anche conto che, operando in contrario, si è inciso maggiormente sul patrimonio sociale; comunque, egli ha diritto al rimborso della quota corrispondente alla porzione liberata.
Con il terzo motivo, si duole della violazione dell’art. 2481 c.c., in quanto ha errato la sentenza impugnata nel ritenere non compensabile il credito da finanziamento soci con il debito da sottoscrizione, per l’erronea considerazione secondo cui quest’ultimo avrebbe dovuto essere soddisfatto esclusivamente in contanti, mentre essa ha omesso ogni pronuncia sull’esistenza di detto finanziamento.
Nel suo ricorso incidentale, la società deduce la violazione dell’art. 2466 c.c. e art. 2476 c.c., comma 2, per avere la sentenze impugnata ritenuto la sussistenza del diritto di controllo del socio moroso.
2. Il primo motivo è infondato.
Correttamente la corte territoriale ha ritenuto che l’art. 2466 c.c. trovi applicazione anche qualora il debito in capo al socio, rimasto insoddisfatto, derivi dalla sottoscrizione della quota di capitale in aumento a lui spettante, trattandosi di disposizione che (al pari dell’art. 2477 c.c. anteriore alla D.Lgs. n. 6 del 2003), mira a preservare l’effettività del capitale sociale.
La norma prevede un procedimento in cui, dall’iniziale richiesta di adempimento entro trenta giorni rivolta al socio, si perviene, attraverso scansioni alternative o successive, all’azione giudiziale di condanna all’adempimento, alla vendita proporzionale ai soci secondo il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato, alla vendita all’incanto, ed, infine, all’esclusione del socio, con la conseguente riduzione nominale del capitale sociale (dunque, operata solo in tale ultima ipotesi).
Ciò palesa come il procedimento abbia di mira, anzitutto, la tutela della situazione patrimoniale della società, tutela che non ha ragione di essere limitata al momento della sua costituzione e dell’inadempimento all’obbligo dei conferimenti iniziali, essendo essa applicabile – in via diretta, e non estensiva od analogica all’esecuzione dei conferimenti in sede di successivo aumento del capitale sociale.
Per quanto, infine, attiene alla circostanza, dedotta nel motivo, del conflitto di interessi in capo all’amministratore, si tratta di allegazione nuova inammissibile.
3.Il secondo motivo è fondato.
3.1. Dalla sentenza impugnata, come pure dal ricorso e dal controricorso, si trae, in punto di fatto, che l’assemblea dei soci del 28 luglio 2010 deliberò un aumento del capitale sociale da Euro 12.000,00 (suddiviso tra i tre soci, nella misura del 33,33% ciascuno) a Euro 72.000,00, offerto in sottoscrizione ai soci in proporzione della partecipazione da ciascuno detenuta, pari a nominali Euro 4.000,00 e, quindi, per la somma di Euro 20.000,00 ciascuno.
Ivi si narra, altresì, che l’odierno ricorrente sottoscrisse per intero la quota di capitale a lui spettante, versando immediatamente la somma di Euro 5.000,00, pari al 25% della quota sottoscritta, mentre non eseguì il versamento del restante 75% nel termine fissato dall’organo amministrativo del 30 ottobre 2010.
L’amministratore della società, una volta accertato l’inadempimento del socio al versamento dei decimi mancanti, ha deliberato, quindi, in mancanza di compratori, l’esclusione del socio, trattenendo le somme riscosse, mentre l’assemblea del 30 giugno 2011 ha deliberato la riduzione del capitale, ai sensi dell’art. 2466 c.c., comma 3.
3.2. Dalla descritta situazione in fatto, accertata dai giudici del merito, risulta dunque che il B. era – in esito all’assemblea deliberante l’aumento ex art. 2481-bis c.c. – socio per una quota di nominali Euro 24.000,00, di cui versati Euro 9.000,00 (ossia, Euro 4.000,00 conferiti all’atto della costituzione della società e Euro 5.000,00 versati in occasione dell’aumento del capitale) ed Euro 15.000,00 non ancora versati.
In sostanza, della quota di nominali Euro 24.000,00, la porzione pari ad Euro 15.000,00 era sottoscritta, ma non versata; e solo il versamento della somma Euro 5.000,00 afferiva all’aumento non interamente liberato, mentre quello di ulteriori Euro 4.000,00 riguardava la quota sottoscritta e liberata in sede di conferimento iniziale.
Tale situazione di fatto induce, pertanto, a concludere come, in ragione della preesistenza, nella titolarità del socio, della quota nominale di Euro 4.000,00, sia stato illegittimo il ricorso alla procedura di c.d. vendita in danno per l’intera partecipazione sociale posseduta dal socio medesimo, pari ad Euro 24.000,00, con la conseguente violazione dell’art. 2466 c.c..
3.3. Invero, l’art. 2466 c.c., in esito al procedimento di legge e laddove non siano state possibili soluzioni meno drastiche, prevede che il socio venga escluso dalla società, con corrispondente riduzione del capitale sociale, l’ente “trattenendo le somme riscosse”.
Si tratta, dunque, di una riduzione nominale per la parte non versata, ma reale per quella già versata.
Il capitale nominale, o capitale sociale, è un’entità fissa, determinata contabilmente secondo l’art. 2328 c.c., comma 2, n. 4 e art. 2463 c.c., comma 2, n. 4, ed indicata, al passivo, nella voce A-I del patrimonio netto, ai sensi dell’art. 2424 c.c.. Esso, quindi, può essere ridotto solo in modo nominale.
Peraltro si distingue, a seconda che alla riduzione del capitale sociale corrisponda anche la riduzione del patrimonio netto della società (riduzione reale) oppure l’operazione si risolva in un mero adeguamento contabile del capitale sociale al patrimonio netto (riduzione nominale). Da un lato si pone, tipicamente, la riduzione c.d. per esuberanza; dall’altro, la riduzione per perdite.
Nella categoria della riduzione reale vengono ricondotte, inoltre, la riduzione per recesso del socio ai sensi degli artt. 2437 e 2473 c.c., quella dovuta al socio per il suo recesso in caso di conferimento in natura di cui all’art. 2343 c.c., comma 4, ed altre evenienze, qui non rilevanti.
Nella categoria della riduzione nominale rientrano, fra le altre, le ipotesi codicistiche della riduzione a causa dei conferimenti in natura sovrastimati ex artt. 2343 c.c., dell’annullamento di azioni proprie ai sensi dell’art. 2357 c.c. e di azioni della società controllante illecitamente possedute di cui all’art. 2359-ter c.c. ed, appunto, della “decadenza” o esclusione del socio moroso, ai sensi degli artt. 2344 e 2466 c.c..
Ora, nel meccanismo previsto da tale ultima disposizione, qualora il socio venga escluso, sebbene egli fosse moroso solo in parte e non per l’intero debito del conferimento, la riduzione del capitale in proporzione all’intera quota finisce per costituire – per la parte corrispondente ai versamenti già eseguiti – una riduzione non solo nominale, ossia di mero adeguamento alle effettive risorse conferite in società, ma in parte reale, permettendo di “liberare” i corrispondenti importi, non più vincolati a capitale. Si tratta delle “somme riscosse”, che vengono legittimamente “trattenute” dalla società, ai sensi dell’art. 2344 c.c., comma 2, e art. 2466 c.c., comma 3, andando a costituire una riserva, e non più la posta corrispondente al vincolo del capitale, sia pure sempre nell’ambito del patrimonio netto, di cui alla lettera A del passivo dello stato patrimoniale di bilancio.
Tale meccanismo, esplicitamente previsto dalla norma con riguardo alla sottoscrizione parziale di un’unitaria operazione, non può tuttavia essere esteso al caso in cui il socio, in virtù di una precedente sottoscrizione attuata in fase di costituzione o anche di un pregresso aumento del capitale, fosse già tale, e senza debiti di conferimento, prima dell’aumento che abbia condotto alla morosità in tal modo sanzionata.
In tale evenienza, il socio non potrà, invero, essere escluso, mentre la riduzione del capitale riguarderà, in modo corrispondente, solo la parte relativa alla sottoscrizione operata con riferimento all’aumento de quo.
3.4. Con riguardo al profilo della unitarietà e non frazionabilità della quota sociale, è vero che la quota di una società a responsabilità limitata è unica per ciascun socio, non potendo essa essere rappresentata da azioni (art. 2468 c.c., comma 1) e non essendo, a differenza di queste, la mera componente di un “pacchetto” di titoli (art. 2346 c.c., comma 1).
E, tuttavia, non è vero che la quota non sia divisibile: il contrario desumendosi già dalla lettera della norma in esame, laddove prevede che la quota del socio moroso possa essere venduta “agli altri soci in proporzione della loro partecipazione”, ai sensi dell’art. 2466 c.c., comma 2, al pari di quanto previsto nell’art. 2473 c.c., comma 4, per l’ipotesi del recesso del socio, nonchè in ragione della pacifica alienabilità parziale della quota sociale. Ciò, peraltro, fa salvo il caso che lo statuto esplicitamente contempli l’indivisibilità della quota di ciascun socio.
3.5. Risponde dunque al precetto di legge, nonchè ai principi di buona fede e correttezza i quali necessariamente informano anche i rapporti societari, che la procedura di annullamento della quota con corrispondente abbattimento del capitale sia intrapresa dall’organo amministrativo solo per la frazione della partecipazione sociale sottoscritta in occasione dell’aumento del capitale sociale rimasto in tutto o in parte ineseguito, e non per la parte di cui il socio fosse titolare prima della deliberazione di aumento stessa.
Infatti, l’inadempimento del socio all’obbligo di versare quanto sottoscritto riguarda non l’intera quota, posseduta dopo l’aumento e risultante dalla somma di questa con la partecipazione originaria, ma solo la porzione derivante dall’aumento di capitale, deliberato dall’assemblea nel corso della vita sociale, se l’iniziale debito da conferimento fosse stato regolarmente, a suo tempo, onorato.
In tal modo laddove, in esito al procedimento di cui all’art. 2466 c.c., si pervenga alla riduzione del capitale sociale, questa sarà operata solo per la parte corrispondente al conferimento dovuto in forza della sottoscrizione dell’aumento (costituendo, dunque, una riduzione in parte nominale, con riguardo alla quota non liberata, ed in parte reale, con riguardo al versamento parziale operato dal socio) e non per l’intera misura della partecipazione, di cui il socio sia titolare: con conseguente vantaggio per gli interessi della stessa società e più generali alla conservazione del valore del capitale sociale, ratio sottesa all’intero procedimento previsto dalla disposizione, il quale infatti procede, via via, dai rimedi endosocietari sino alla soluzione estrema della rinuncia a quel conferimento mediante la riduzione del capitale sociale.
Al contrario, la ratio di permettere agli altri soci, in virtù dell’inesecuzione del conferimento, di escludere definitivamente il socio inadempiente dalla società non è rinvenibile nella disposizione in esame.
In conclusione, deve enunciarsi il seguente principio di diritto:
“Nel caso di mora del socio nell’esecuzione dei versamenti, dovuti alla società a titolo di conferimento per il debito da sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale deliberato dall’assemblea nel corso della vita della società, il socio non può essere escluso, essendo egli titolare della partecipazione sociale sin dalla costituzione della società; pertanto, ferma la permanenza del socio in società per la quota già posseduta, l’assemblea deve deliberare la riduzione del capitale sociale solo per la misura corrispondente al debito di sottoscrizione derivante dall’aumento non onorato, fatto salvo solo il caso in cui lo statuto preveda l’indivisibilità della quota”.
4. Il terzo motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata contiene una duplice ratio decidendi, avendo escluso che il socio abbia dato la prova dell’esistenza di finanziamenti alla società, e avendo solo ad abundantiam affermato come, in ogni caso, il relativo credito non avrebbe potuto essere compensato con il debito da conferimento, trattandosi di aumento del capitale a pagamento.
La prima ratio, che del resto attiene ad accertamento di fatto qui non ripetibile, non è stata confutata dal motivo e resta, dunque, idonea a sorreggere la decisione, oltre a palesare l’inconsistenza della censura relativa all’omesso esame di tale circostanza.
5. Il ricorso incidentale è infondato.
Il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., a partecipare alle decisioni o alle deliberazioni assembleari esprimendo il proprio voto, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, sino a che egli resti parte della compagine societaria.
Il socio moroso, invero, fino al completamento del procedimento di vendita coattiva o di esclusione non cessa di essere socio (ad es., egli è computato nel quorum costitutivo, ma non nel quorum deliberativo, come si desume dall’art. 2368 c.c., comma 3).
Mentre, dunque, il voto resta “sospeso” per il tempo della morosità, quale misura sanzionatoria e sollecitatoria dell’adempimento, non così i diritti amministrativi ed, in primis, il diritto di informazione e di ispezione, di cui all’art. 2476 c.c., comma 2, che resta a presidiare la trasparenza dell’andamento societario, e tanto più necessario (salvo abusi, di cui però nella specie non si discute) proprio nel momento del conflitto con gli altri soci o con la gestione societaria.
Sul punto, giova enunciare il seguente principio di diritto:
“Il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., ad esprimere il proprio voto nelle decisioni e deliberazioni assembleari, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, ai sensi dell’art. 2476 c.c., comma 2, sino a che egli resti parte della compagine societaria in esito al procedimento intrapreso dagli amministratori”.
6. La sentenza impugnata va dunque cassata in accoglimento del motivo accolto, con rinvio innanzi alla Corte del merito, in diversa composizione, perchè provveda – sulla base del principio enunciato al punto 3 – a decidere le domande di accertamento dell’invalidità dell’esclusione del socio e di accertamento dell’entità della quota residua in capo al ricorrente.
Alla corte del merito si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso principale, respinto il primo ed inammissibile il terzo; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, innanzi alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dallaL. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020
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Cassazione civile sez. VI – 25/02/2020, n. 4956
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26458-2018 proposto da:
C.R.F., elettivamente domiciliato in …, presso lo studio dell’avvocato …, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati …;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO (OMISSIS) SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona dei curatori, elettivamente domiciliato in …. presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato …;
– resistente –
per regolamento di competenza avverso la sentenza n. 528/2018 del TRIBUNALE di MANTOVA, depositata l’11/07/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/11/2019 dal Consigliere Dott. ALDO ANGELO DOLMETTA;
lette le conclusioni scritte del PUBBLICO MINISTERO in persona del SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE DOTT. LUISA DE RENZIS che visti gli artt. 43,47 e 380 ter c.p.c., chiede alla Corte di accogliere lo stesso ricorso e per l’effetto cassare l’impugnata sentenza del Tribunale di Mantova ed accertare e dichiarare la competenza dell’arbitro unico di cui all’art. 24 dello statuto della srl (OMISSIS) a decidere la controversia oggetto del giudizio RG 4715/2016.
FATTI DI CAUSA
1. Dietro proposta del curatore, il giudice delegato al fallimento della s.r.l. (OMISSIS) in liquidazione ha emesso, ai sensi dell’art. 150 L. Fall., decreto ingiuntivo nei confronti di C.R.F. per l’immediato versamento delle somme che questi, quale socio, ancora doveva in relazione alla delibera di aumento del capitale assunta dalla società poi fallita nel dicembre 2010.
L’ingiunto ha presentato opposizione ex art. 645 c.p.c. avanti al Tribunale di Mantova, eccependo l’incompetenza della autorità giudiziaria ordinaria in ragione di apposita clausola contenuta nello statuto della società; l’intervenuta prescrizione e comunque la decadenza della pretesa azionata; la sussistenza di una “revoca implicita” della delibera di aumento; la compensazione “dei versamenti derivanti dalla delib. 20.12.2010 con quanto versato da C. in esecuzione della delib. di aumento del 27.4.2011”.
2. Con sentenza depositata l’11 luglio 2018, il Tribunale di Mantova ha rigettato l’opposizione proposta dall’ingiunto, affermando la propria competenza, respingendo inoltre le ulteriori eccezioni preliminari e pure i rilievi di merito ivi formulati.
3. Per quanto qui interessa, la sentenza ha ritenuto, in particolare, che la controversia di cui all’opposto decreto ingiuntivo non rientrava nell’ambito della clausola compromissoria contenuta nello statuto della società fallita, secondo la quale “tutte le controversie aventi a oggetto rapporti sociali… saranno risolte mediante arbitrato rituale secondo diritto in conformità al regolamento della camera arbitrale… da un arbitro unico nominato dalla camera arbitrale” (art. 24).
Il fallimento – così si è osservato – “ha agito in via monitoria al fine di ottenere l’esecuzione dei versamenti ancora dovuti dai soci in forza della delib. 20.10.2012”: perciò, la pretesa in tal modo azionata “non trova la propria fonte nello statuto sociale, nè si può affermare che, mediante l’espletata azione in via monitoria, il curatore abbia inteso “subentrare” nel rapporto contrattuale ovvero nello statuto della società”; la “causa petendi del credito fatto valere dal fallimento infatti trova la propria fonte nella delibera che ha disposto l’aumento di capitale, poi non versato”.
4. C.R.F. ha impugnato la sentenza con ricorso per regolamento facoltativo di competenza ex art. 43 c.p.c., in relazione alla parte in cui ha escluso la competenza arbitrale riguardo alla controversia di cui all’opposto decreto ingiuntivo.
Il fallimento ha depositato una “memoria difensiva”, ai sensi dell’art. 47 c.p.c., u.c..
Entrambe le parti hanno anche depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
5. Il ricorrente assume “violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, dell’art. 83 bis L. Fall., e dell’art. 808 quater c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e/o n. 4”.
A suo avviso, la sentenza ha commesso, in particolare, due distinti errori.
Il primo consiste nell’affermare che il curatore non sarebbe subentrato nel rapporto sociale. In realtà, l’obbligo di effettuare i versamenti per l’aumento di capitale sottoscritto – si annota – non può che derivare dal rapporto sociale: “il curatore si pone nella medesima posizione sostanziale e processuale del fallito ed esercita il diritto che era già sorto in capo alla società prima della dichiarazione di fallimento.
Il secondo errore sta nell’affermazione per cui la pretesa del fallimento troverebbe la propria fonte non già nello statuto, bensì nella delibera di aumento. Il giudice sovrappone e confonde – così si censura – il “piano inerente allo statuto sociale, ossia l’atto che contiene le norme relative al funzionamento della società”, con il “plano relativo alla delibera di aumento di capitale, che si pone quale atto organizzativo della società con cui si estrinseca una modifica statutaria”.
6. Nella memoria ex art. 47 c.p.c. il fallimento – nel riprendere gli argomenti formulati dalla sentenza del Tribunale mantovano – rileva inoltre che l'”art. 150 L. Fall. impone al curatore di chiedere l’ingiunzione al giudice delegato e all’ingiunto di proporre opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c., per cui non può esservi alcuna competenza arbitrale: si tratta di competenza inderogabile ed esclusiva”. Ancora aggiunge la memoria che il “curatore non è un socio che ha sottoscritto il contratto sociale contenente la clausola arbitrale, ma un terzo al quale non è opponibile, in quanto egli non subentra nell’atto costitutivo”: il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34 comma 3, “prescrive che la clausola compromissoria negli atti costitutivo societari “è vincolante per la società e per tutti i soci”, non per i terzi diversi dai soci”.
7. Il ricorso va accolto, in conformità a quanto deciso dalla pronuncia di Cass., 30 settembre 2019, 24444 con riferimento a controversia analoga alla presente, secondo i termini e nei limiti qui di seguito illustrati.
8. Secondo la prospettazione fornita dal curatore fallimentare, la fattispecie che viene qui in esame propone quali dati di base: in primo luogo, un aumento di capitale deliberato dall’assemblea in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento della società e per un certo periodo di tempo rimasto (almeno per in parte) non eseguito; in secondo luogo, una richiesta di esecuzione dello stesso nei confronti di C.R. (assunto quale socio), posta in essere in sede fallimentare e poi sfociata nel decreto ingiuntivo emesso dal giudice delegato. Rispetto a questi dati (che assume in thesi) il ricorrente predica l’applicazione della clausola compromissoria contenuta nello statuto sociale (art. 24).
Nella sua delineazione strutturale di base, dunque, la fattispecie in oggetto integra gli estremi di un’ipotesi tipica di contratto pendente alla data della dichiarazione di fallimento. Come tale, per sè idonea a ricadere nell’ambito applicativo dell’art. 83 bis L. Fall.: norma in effetti ritenuta comunemente applicabile non solo nel caso di arbitrato pendente al tempo della sentenza dichiarativa, ma pure in quello in cui a risultare pendente è il contratto che contiene la clausola compromissoria.
Si tratta, pertanto, di verificare se i contenuti della clausola compromissoria, di cui all’art. 24 dello statuto della società poi fallita, siano effettivamente pertinenti alla fattispecie appena indicata, nonchè, e distintamente, se l’applicazione di questa clausola a tale fattispecie non incontri i limiti dei diritti indisponibili e degli specifici divieti di legge, di cui alle norme dell’art. 806 c.p.c., comma 1 e del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 3.
9. Analizzando più da vicino i termini proposti dalla fattispecie concreta, è da notare adesso che, secondo quanto emerge direttamente anche dall’impianto sistematico del codice civile, la delibera di aumento del capitale di società si pone come atto (secondo altra ricostruzione dommatica, come fatto) “modificativo dell’atto costitutivo” (cfr., con specifico riferimento alla s.r.l., l’intestazione della sezione V, capo VII, titolo V, libro V, del codice). La delibera si pone, quindi, come atto modificativo del negozio costitutivo della società data: in cui, fermi per l’appunto gli altri patti e clausole, per decisione dei soci (cfr. l’art. 2479 c.c., comma 2, n. 4) vengono modificati i termini contenutistici di quell’elemento costituivo del negozio di s.r.l. che è rappresentato dal capitale della società (art. 2463 c.c., comma 2, n. 4).
Posta questa struttura di base, lo statuto della società e la delibera di aumento non si pongono in termini alternativi, o antagonistici, nei confronti dell’aumento di capitale (sua decisione e sua esecuzione), come pure ha ritenuto il Tribunale mantovano. Si pongono, invece, in termini di consecutività sostanziale, la delibera sovrapponendosi alla precedente decisione statutaria in punto di misura del capitale.
Non può essere dubbio, d’altra parte, che – trattandosi di vicenda modificativa del precedente patto societario – la controversia, che per un verso o per altro concerna l’aumento, rientra, di per sè, nell’ambito dei “rapporti sociali” (secondo la formula adottata dall’art. 24 dello statuto della società poi fallita, in via di sostanziale mutuazione di quella contenuta nel D.Lgs. n. 3 del 2005, art. 34, comma 1).
10. Peculiare attenzione richiede, peraltro, anche il punto specificamente relativo all’esecuzione dell’aumento deliberato dall’assemblea, che è quanto qui viene, anzi, in diretto e immediato interesse.
Nel sistema dei contratti con comunione di scopo (dal codice civile denominati “contratti plurilaterali”), nel cui contesto si situa, tra gli altri, anche il contratto di società, l’ordinamento ammette – com’è noto – la regola del trattamento differenziato della singola parte contrattuale rispetto all’insieme delle altre (cfr., così, gli artt. 1424,1446,1459 c.c.).
Con riferimento all’esecuzione dei conferimenti nella s.r.l., la detta regola si è tradotta nella disposizione dell’art. 2466 c.c., che per l’appunto prescrive l’obbligo degli amministratori della società di seguire determinati percorsi nei confronti dei contraenti morosi (ciascuno distintamente considerato rispetto agli altri, salva comunque l’applicazione della regola della parità di trattamento): come intesi o ad addivenire all’esecuzione coattiva dell’obbligo di eseguire il conferimento (cfr. all’interno del comma 2 dell’art. 2466) ovvero, in alternativa (nel senso, peraltro, che sarà chiarito nel n. 16), a sostituire con altri il socio moroso (cfr. sempre il comma 2 della norma) e anche, nel caso occorrente, a sciogliere il contratto limitatamente alla (sola) partecipazione del socio moroso (art. 2466, comma 3).
Secondo quanto è corretta opinione comune, tale disposizione si applica tanto nel caso di costituzione della società, quanto in quello dell’aumento del capitale.
11. Nel caso di scioglimento della società, e anche nell’eventualità di fallimento della medesima, non pare subire alterazioni sostanziali la parte della norma dell’art. 2446 c.c. che concerne l’esecuzione coattiva dell’obbligo di eseguire i conferimenti dovuti (salva, nel caso, l'”integrazione” derivante dall’art. 150 L. Fall.; questo punto verrà ripreso infra, nel n. 14): secondo quanto emerge, prima di tutto, dalla disposizione dell’art. 2491 c.c., comma 1.
Qualche perplessità potrebbero forse sorgere, invece, in relazione all’altra parte normativa dell’art. 2466, riferita alla sostituzione del contraente moroso con altri soggetti: di per sè, ben difficilmente reperibili (come disposti a versare il conferimento dovuto), attesa la situazione in cui si trova oggettivamente a versare la società (dei cui conferimenti si discute).
A ben vedere, trattasi tuttavia di un ostacolo solo fattuale all’applicazione della disciplina di questa parte dell’art. 2466: in specie, nel senso che, ai sensi del comma 3, in ogni caso la concreta “mancanza di compratori” delle quote morose produce in via diretta la conseguenza che gli amministratori o i liquidatori della società – o, nel caso, il curatore fallimentare “escludono il socio, trattenendo le somme riscosse” (per precedenti versamenti che quest’ultimo abbia eventualmente compiuto).
12. Nel caso in cui il socio moroso contesti, per una o per altra ragione, il diritto del curatore di incamerare definitivamente le somme, che questi abbia trattenuto in ragione della detta norma, non può comunque trovare applicazione la clausola arbitrale che sia eventualmente contenuta nello statuto della relativa società.
In effetti, una simile pretesa per definizione si atteggerebbe nei termini di richiesta di restituzione somme: assumendo, quindi, la consistenza (ipotetica) di un credito del socio verso il fallito. Ed è principio acquisito quello per cui “non sono mai arbitrabili le pretese fatte valere da terzi”, soci compresi, “verso l’amministrazione fallimentare” (cfr., in particolare, la citata Cass., n. 24444/2019). Per queste pretese, in ogni caso occorre il “procedimento di verifica dello stato passivo”, che non ammette alternative.
13. Nella controversia qui in concreto esame, tuttavia, il curatore ha optato per la strada dell’esecuzione forzata, azionando la richiesta prevista dalla norma dell’art. 150 L. Fall. (nell’ambito dottrinale non mancandosi di sottolineare che la scelta tra il procedimento ex art. 150 L. Fall. e l’adozione del “procedimento speciale stabilito” dall’art. 2466 risponde, di per sè, a una scelta di opportunità).
Di conseguenza, il tema, che qui viene indagato, rimane estraneo alla materia del credito del socio verso la società fallita, per restare focalizzato sulla situazione inversa, del credito della società fallita nei confronti del socio (cfr. sopra, nel n. 8).
14. In materia di diritto al versamento dei conferimenti dovuti dai soci morosi, il fallimento trova – secondo la formula di uso corrente – il diritto già esistente nel patrimonio del fallito. Realizzandosi così un fenomeno di semplice “sostituzione” (di tratto essenzialmente gestorio) del curatore nella posizione degli amministratori o dei liquidatori.
Per la verità, a questo schema si potrebbe forse obiettare che – una volta dichiarato il fallimento della società – il curatore dispone di un potere ulteriore rispetto a quelli che fanno da comune corredo alla corrispondente azione di amministratori e di liquidatori: alla normale possibilità di chiedere decreto ingiuntivo aggiungendosi (non sostituendosi) quello di chiedere senz’altro l’intervento del giudice delegato, secondo quanto per l’appunto stabilito dalla norma dell’art. 150 L. Fall. (il curatore non perde il potere di procedere in via monitoria ricorrendo alle regole di diritto comune).
Non sembra, tuttavia, che ciò possa formare una base sufficiente per dare vita a una posizione di diversità rilevante di terzietà, secondo quanto invece sostenuto nella memoria depositata dal fallimento della s.r.l. (OMISSIS) (cfr. sopra, nel n. 6) – del curatore rispetto alle originarie posizioni contrattuali. In effetti, la causa petendi rimane comunque identica, pur nel caso di utilizzo dello strumento che arricchisce i poteri del curatore.
D’altro canto, come è stato osservato in ambito dottrinale, il procedimento di cui all’art. 150 conserva una natura monitoria; nè è pensabile che lo stesso risulti utilizzabile pur in difetto di prova scritta. Lo scarto differenziale dello strumento dell’art. 150 L. Fall. sembra dunque consistere – in ragione della competenza, che viene assegnata (anche) al giudice delegato nelle maggiori rapidità e snellezza del relativo procedimento.
15. Rimane da considerare il punto della arbitrabilità della controversia relativa alla materia dell’obbligo di esecuzione dei conferimenti nell’ambito di una s.r.l..
In relazione alla nozione di diritto (non) disponibile, di cui all’art. 806 c.p.c. ed al D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 3, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che il “limite della disponibilità si fonda”, nella sua radice di base, “sulla stessa configurazione del giudizio arbitrale”: “l’arbitro, derivando il suo potere da quello delle parti, non può decidere una controversia relativa a diritti sottratti alla disponibilità delle parti”.
Di base, “l’area dell’arbitrabilità coincide con quella della disponibilità dei diritti”: allora, “la disponibilità va commisurata al diritto oggetto della controversia, e non alle questioni che gli arbitri, devono sciogliere in vista della decisione, suscettibili di essere affrontate con effetti incidenter tantum”. L’inderogabilità e l’imperatività che eventualmente regolino il diritto “non rende automaticamente quest’ultimo indisponibile, rimanendo viceversa tenuti gli arbitri ad applicare la normativa cogente in materia prevista” (cfr., in specie, Cass., 16 aprile 2018, n. 9344; sul punto v. anche, tra le altre decisioni, la più volte citata pronuncia di Cass., n. 24444/2019).
Ora, è orientamento consolidato di questa Corte che le controversie in materie societarie ben possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso (si veda, del resto, il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34): con esclusione, peraltro, di quelle “che hanno a oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi” (Cass., 23 febbraio 2005, n. 3772; Cass., n. 24444/2019).
16. La presenza del principio di tutela del capitale sociale e in specie dell’effettività del medesimo – che, nel sistema vigente, connota propriamente la regolamentazione delle società c.d. di capitali (si pensi ad esempio, per la specifica forma della s.r.l., al disposto dell’art. 2467 c.c.) – potrebbe forse far dubitare che quello al versamento dei conferimenti dovuti sia da considerare, ai fini dell’arbitrabilità delle relative controversie, nel novero dei “diritti disponibili” (ex art. 806 c.p.c.D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 3).
Un’indicazione importante in senso contrario viene fornita, tuttavia, proprio dal disposto dell’art. 2466 c.c., che più sopra si è esaminato (cfr. i numeri 11 e 12).
In effetti, il comma 3, ultimo periodo, di questa disposizione stabilisce che – nel caso in cui non risulti effettivamente possibile, nel concreto della fattispecie, procedere alla vendita in danno del socio moroso per la “mancanza di compratori” gli amministratori debbono non solo “escludere il socio” trattenendo le somme da questi eventualmente versate, ma altresì procedere a “ridurre il capitale in misura corrispondente”.
Ciò che tra l’altro implica, secondo quanto appare evidente, una sorta peculiare di rinuncia al credito (del tutto a prescindere – si deve pure avvertire per la necessaria completezza di discorso – dal tema, di per sè finitimo, relativo alla questione se mai gli amministratori, i liquidatori o il curatore fallimentare possano eventualmente procedere a rinunce involgenti il credito all’esecuzione del conferimento, fuor dall’ipotesi e termini stabiliti dalla norma dell’art. 2466 c.c., comma 3).
Quella appena indicata si manifesta – è opportuno altresì precisare – un epilogo possibile pure nel caso in cui gli amministratori o i liquidatori o il curatore fallimentare scelgano in un primo tempo di percorrere la strada dell’esecuzione coattiva: chè la riscontrata incapienza patrimoniale del socio moroso, o anche altre ragioni di opportunità, ben possono consigliare al gestore di abbandonare tale via per tentare quella della vendita in danno.
La constatazione che, sotto il profilo funzionale, tale riduzione del capitale risulta possedere il significato sostanziale di trasmettere un’informazione al mercato non elimina, per la verità, lo spessore del rilievo che, sotto il profilo strutturale, si manifesta proprio -nella rinuncia al credito che alla riduzione medesima viene a connettersi.
17. La conferma della “disponibilità” – in relazione allo specifico punto dell’arbitrabilità delle relative controversie – del diritto della società al versamento dei conferimenti dovuti risulta comunque data, da altra prospettiva, dalla pronuncia di Cass., 28 agosto 2015, n. 17283.
Questa sentenza ha, infatti, ritenuto compromettibili in arbitro la stessa impugnativa di una delibera assembleare di aumento di capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno, pure assumendo (tra l’altro) che trattasi in definitiva di una mera “controversia tra socio e società”.
Sui contenuti di questo arresto si è, d’altro canto, soffermata funditus la più volte citata pronuncia di Cass., n. 24444/2019, per l’appunto assegnandogli rilievo peculiare, assorbente, ai fini della soluzione del problema in esame. La compromettibilità della delibera assembleare che decide sull’aumento – così ha in particolare ritenuto la detta decisione – “implica che non possa dubitarsi, poi, che lo sia altresì, sul medesimo versante, la controversia semplicemente succedanea, tesa all’esecuzione del conferimento e in cui si discuta della sua esigibilità”.
18. Alla stregua delle osservazioni complessivamente svolte, deve in conclusione essere dichiarata la competenza arbitrale in ordine alla controversia de qua.
Va di conseguenza cassata la sentenza impugnata, con rimessione delle parti innanzi agli arbitri.
19. Il Collegio ritiene equo compensare per intero le spese del regolamento, anche in considerazione del fatto che la questione, qui esaminata, risulta fatta oggetto di esame da parte della giurisprudenza di questa Corte solo in tempi molto recenti.
P.Q.M.
La Corte dichiara la competenza arbitrale. Cassa la sentenza impugnata e rimette le parti innanzi agli arbitri. Compensa per intero le spese del regolamento di competenza.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile – 1, il 20 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020