I. Con ordinanza 7 febbraio 2020 n. 2980, la I sezione civile della Corte Suprema di Cassazione è intervenuta sul tema delle c.d. vendite sottocosto, ribadendone la illiceità, nel solco della sua precedente giurisprudenza, solo se poste in essere da imprese in posizione dominante.
Invero, la vendita “sottocosto” – definita dall’art. 15, comma 7, d. lgs. 31 marzo 1998, n. 114, in tema di “vendite straordinarie”, secondo i parametri convenzionali di calcolo ivi indicati – è stata descritta dalla Corte, in modo più discorsivo, come la vendita di “prodotti sul mercato ad un prezzo particolarmente basso, tale da non apparire (almeno nell’immediato) remunerativo per l’offerente, ma, per ciò stesso, idoneo a porre in difficoltà i concorrenti che praticano un prezzo più elevato” (così Cass. 26 gennaio 2006, n. 1636) o come artificioso abbattimento sottocosto dei prezzi non giustificato dalle obiettive condizioni di acquisto dei beni (così Cass. 20 marzo 2009, n. 6865). Al riguardo, si parla anche di vendita c.d. a prezzi predatori, perché inferiori, in sostanza ai costi di produzione, o dumping interno.
Si tratta di condotta che ha richiamato l’attenzione degli operatori e del legislatore, presentando in sé un’ambivalenza: atteso come, nell’economia di mercato, la riduzione dei prezzi è una finalità della concorrenza, e, purtuttavia, può diventare uno strumento per eliminarla.
La sua disciplina regolamentare è tuttora contenuta nel d.p.r. 6 aprile 2001, n. 218, regolamento recante disciplina delle vendite sottocosto, a norma del predetto art. 15 d. lgs. n. 114 del 1998.
In ordine alla liceità di tali condotte, le disposizioni emanate nel 1998 e nel 2001 limitano, da un lato, il ricorso alla vendita sottocosto, mediante una specifica disciplina, e, dall’altro lato, ne rimettono espressamente, secondo il sistema, la concreta valutazione di liceità all’AGCM ed al giudice ordinario, sia con riguardo al divieto di abuso di posizione dominante (art. 3 l. 10 ottobre 1990, n. 287), sia in ordine all’eventuale violazione del divieto di concorrenza sleale per contrarietà ai principi della correttezza professionale (art. 2598, comma 1, n. 3, c.c.) (cfr. art. 6, comma 2, d.p.r. n. 218 del 2001).
In verità, il legislatore dell’epoca aveva piuttosto accolto l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale, espresso in quel momento storico, contrario alle vendite sottocosto (cfr. Cass. 21 aprile 1983, n. 2743, confermata da Cass., sez. un., 22 maggio 1991, n. 5787), il quale ne affermava l’illiceità, in quanto, in tal modo, da un lato, verrebbe “ad essere subdolamente ed illusoriamente fuorviato il giudizio del consumatore”, e dall’altro lato, sarebbero “infrante le regole su cui gli operatori economici confidano, affrontando il mercato nella misura consentita dalla produttività del sistema e dalle generali condizioni obiettive della produzione”.
Il pensiero sotteso all’indirizzo or richiamato era che, a differenza della competizione industriale fra imprese (basata sul miglioramento della qualità del prodotto e sulla riduzione dei costi di produzione), la competizione extraindustriale (attuata, cioè, mediante strumenti strategici di comunicazione e di distribuzione) non fosse consentita.
II. Tuttavia, tale orientamento è stato superato dalla giurisprudenza successiva (Cass. 26 gennaio 2006, n. 1636), la quale – premesso che la clausola indeterminata dell’art. 2598, comma 1, n. 3 c.c. va concretizzata sulla base di parametri desunti da altre norme, o da ulteriori principi generali, rinvenibili nell’ordinamento e che l’art. 41 Cost. sulla libertà d’iniziativa economica costituisce il principio generale in materia – ha, anzitutto, chiarito come la scelta di un imprenditore in ordine alla politica dei prezzi sia in via di principio lecita, trattandosi di uno dei modi in cui si esplica la anzidetta libertà d’iniziativa economica costituzionalmente tutelata. Questa libertà, naturalmente, non è assoluta, ed incontra i limiti indicati nei due commi successivi del medesimo art. 41; ma resta il fatto che, per poter affermare la scorrettezza di un comportamento così strettamente legato alle valutazioni di rischio ed ai calcoli e rendimento tipici dell’attività d’impresa, bisogna che esso risulti incompatibile con regole o principi chiaramente posti dall’ordinamento. E bisogna che siffatte regole o principi siano, per parte loro, riconducibili a quell’esigenza di utilità sociale solo con riferimento alla quale il menzionato art. 41 Cost., comma 2, consente di limitare la libertà d’impresa.
In quest’ottica, appare chiaro come la valutazione di eventuale scorrettezza di un dato comportamento – in specie, ma non solo, per quel che riguarda la determinazione del prezzo al quale un bene o servizio venga offerto sul mercato – debba essere compiuta nell’interesse del mercato. Occorre cioè aver riguardo a quel che nuoce o a quel che giova al buon funzionamento del mercato medesimo (in tal senso si veda anche Cass 11 agosto 2000, n. 10684), e quindi alla generalità dei consumatori, perché in questo risiede l’interesse generale, a prescindere dalla convenienza di una determinata categoria professionale.
Se così è, necessariamente ne discende – per la Suprema Corte – che la scorrettezza nella fissazione di un determinato prezzo non può dipendere dal solo fatto che i concorrenti ne siano messi in difficoltà: in ciò sta l’essenza stessa della concorrenza, cui è connaturato l’elemento competitivo per il quale ciascuno dei concorrenti si sforza di prevalere sull’altro. Né certo sarebbe sostenibile che la competizione sia lecita soltanto a patto di esplicarsi sul piano strettamente produttivo, ossia attraverso la riduzione dei costi di produzione a parità di qualità del prodotto, essendo invece fuor di dubbio che siano del pari lecite tecniche di concorrenza che operano sul piano finanziario e, in generale, attraverso varie possibili forme di “marketing”.
I limiti entro i quali un tal comportamento è legittimo finiscono per identificarsi, perciò, secondo la citata Cass. n. 1636/06, unicamente con quelli che il legislatore europeo, prima, e quello nazionale, poi, hanno posto alla libertà d’impresa al fine di garantire appunto la funzionalità del mercato e di tutelare l’interesse dei consumatori. In tanto, allora, si potrà sostenere che la fissazione dei prezzi più o meno bassi è atto di concorrenza sleale, in un determinato mercato o in settore rilevante di esso, in quanto essa contrasti con le regole cui s’è appena fatto cenno, e segnatamente con il divieto di abuso di posizione dominante desumibile dall’art. (82, del Trattato istitutivo dell’Unione europea ora) 102 TFUE e dalla L. n. 287 del 1990, art. 3. In altre parole, la vendita sottocosto (o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi) appare contraria ai doveri di correttezza evocati dall’art. 2598 c.c., n. 3, solo se a porla in essere sia un’impresa che muove da una posizione di dominio e che, in tal modo, frapponga barriere all’ingresso di altri concorrenti sul mercato o comunque indebitamente abusi di quella sua posizione non avendo alcun interesse a praticare simili prezzi se non, appunto, quello di eliminare i propri concorrenti per poter poi rialzare i prezzi approfittando della situazione di monopolio così venutasi a determinare.
III. L’indirizzo della Suprema Corte inaugurato dall’anzidetto arresto n. 1636/06 ed ora confermato dalla pronuncia n. 2980/20, trova riscontro nella giurisprudenza della Corte di giustizia (v. sent. 3 luglio 1991, causa C-62/86, AKZO; più di recente, con sentenza 19 ottobre 2017, n. 295/16, la Corte eurounitaria ha censurato, a norma della direttiva 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali, il divieto generale di vendita sottocosto), ma implica un ridimensionamento delle pratiche di vendita sottocosto quale illecito concorrenziale. Per meglio dire, il dumping interno da illecito concorrenziale assume i connotati di illecito antitrust (sicchè può meglio definirsi predatory pricing), appunto quale manifestazione di abuso di posizione dominante, corroborando la posizione di chi, in dottrina (M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I, 649; ID., Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, in Danno e resp., 2005, 237), in relazione alle ipotesi di sovrapposizione della normativa ex art. 2598 c.c. con quella antitrust, aveva optato per la radicale soluzione dell’applicazione del principio di specialità in favore della seconda.
IV. Il tema della valenza anticoncorrenziale della applicazione di prezzi predatori nella vendita di beni e/o nella prestazione di servizi, ha trovato ingresso anche in ambito notarile in virtù di un orientamento giurisprudenziale formatosi nel 2013 in relazione alla previsione dell’art. 147 L. not. allora vigente. Con la sentenza 14 febbraio 2013 n. 3715, la II sezione civile della Corte di Cassazione, dopo aver rilevato che, in tema di illeciti disciplinari dei notai, è venuta meno, per effetto dell’art. 2 d.l. 4 luglio 2006 n. 223 (convertito dalla l. 4 agosto 2006 n. 248), nonché dagli artt. 9 e 12 d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 (convertito dalla l. 24 marzo 2012 n. 27), la rilevanza disciplinare della condotta del notaio che richieda compensi inferiori a quelli discendenti dalla applicazione della tariffa, ha tuttavia aggiunto che la libertà di adottare comportamenti di prezzo indipendenti sul mercato non può e non deve tradursi in un pregiudizio per il cliente in termini di qualità della prestazione, né può realizzarsi attraverso pratiche professionali scorrette e con strumenti di acquisizione della clientela non conformi all’etica della comunità professionale alla quale il notaio appartiene e non confacenti al decoro ed al prestigio della classe notarile.
Con la successiva sentenza 23 aprile 2013 n. 9793, la stessa II sezione civile ha quindi precisato, che, pur essendo venuta meno, per quanto suesposto, l’automatica sanzionabilità della condotta del notaio che offra la propria prestazione per compensi più contenuti rispetto a quelli previsti dalla tariffa notarile, la tutela deontologica del decoro della professione in ipotesi di indiscriminate politiche di ribassi, non più affidata ad una rigida equiparazione dei corrispettivi, non priva di rilevanza, sul medesimo piano disciplinare, i comportamenti concorrenziali scorretti o predatori. Comportamenti che si caratterizzano, cioè, per politiche di mercato, conosciute nel diritto industriale e descritte in dottrina e giurisprudenza, miranti ad ostacolare una concorrenza effettiva nel mercato e non a realizzarne i benefici effetti.
È questo, per il Supremo Collegio, un versante di “tutela” dell’equilibrio tra professionalità e regime dei compensi notarili che deve particolarmente impegnare l’azione disciplinare degli organi competenti, al fine di garantire comunque la difesa della figura professionale notaio e la deontologia che ne connota la funzione di rilievo pubblicistico, (difesa) non più affidabile alla rigida osservanza dello strumento tariffario.
È appena il caso di segnalare che, prendendo spunto dalle or sintetizzate argomentazioni delle citate pronunzie di legittimità, in dottrina si è prospettata l’estensione dei principi in tema di prezzi predatori ad analoghe fattispecie di concorrenza fra notai rilevanti sul piano disciplinare, tenendo comunque conto dell’esigenza di “rispettare i principi di libera concorrenza ed evitare il facile errore di credere che sia sanzionabile per definizione una politica aggressiva di professionisti che invece non sono necessariamente imputabili per il mero fatto di detenere un elevato potere di mercato; il problema non è chi lavora troppo, ma chi lavora male” [così, sempre con riguardo alla previgente formulazione dell’art. 147 L. not., C. LICINI, Condotte concorrenziali e pratiche predatorie: un’analisi giuseconomica, in La responsabilità del notaio tra disciplina vigente e prassi sanzionatoria, Quaderno della Fondazione Italiana del Notariato (e-library), Supplemento telematico al n. 1/2015].
Peraltro, se e nella misura in cui il vigente art. 147 L. not., malgrado le modifiche introdotte nel 2017 [1], consenta di continuare a prospettare l’illiceità di pratiche professionali lesive del decoro e del prestigio della classe notarile (sulle implicazioni della novella cons. C.F. GIULIANI – A. GIACCHETTI, Principi di deontologia e procedimento disciplinare notarile, Milano, 2018, 256-257), permarrebbe comunque la difficoltà di sanzionare disciplinarmente condotte predatorie in assenza di una posizione dominante sul mercato del professionista responsabile. Ciò potrebbe dunque suggerire sul tema un approccio analogo a quello adottato, nel settore degli appalti pubblici, con riguardo alle c.d. offerte anomale, a quelle offerte cioè che, in quanto anormalmente basse rispetto a soglie normativamente fissate, possono essere escluse dalle gare all’esito di apposito procedimento di verifica condotto dalla stazione appaltante in contraddittorio con le imprese interessate (in tal senso C. LICINI, op. cit., da cui sono tratte le considerazioni che seguono).
Pur esulando la questione dall’oggetto specifico della presente trattazione, può comunque accennarsi al fatto che la disciplina delle offerte anomale, di derivazione comunitaria, nel presupposto della inidoneità della offerta anormalmente bassa a garantirne l’attendibilità sì da offrire un serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto, ha il fine della salvaguardia della libera concorrenza fra le imprese, minacciata da offerte che, a causa dell’eccessivo ribasso praticato, non sono in grado di perseguire la preminente finalità della corretta esecuzione del contratto (così Cons. Stato, sez. V, n. 6290/08).
Invero, per la giurisprudenza amministrativa la verifica dell’anomalia deve condurre ad accertare che l’offerta sia non solo conveniente, ma anche seria ed affidabile e, affinchè ciò accada, gli appalti devono essere aggiudicati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, nella convinzione che le acquisizioni in perdita possano indurre gli aggiudicatari ad una negligente esecuzione (Cons. Stato, sez. VI, n. 1800/12). In base al superiore principio, è necessaria la sussistenza di un margine di utile poiché non è tutelabile di per sé l’interesse dell’impresa a eseguire comunque, anche in perdita, un appalto al fine di acquisire fatturato, in quanto tale interesse va comparato con quello del committente pubblico a poter confidare sulla regolare esecuzione del servizio (così TAR Lazio Roma, sez. III, n. 1370/08).
La disciplina che consente l’esclusione delle offerte anomale sottintende, invero, la consapevolezza che un contratto non può essere vantaggioso per l’appaltante se non è, in pari tempo, giustamente remunerativo per l’appaltatore, e la pratica dell’eccessiva riduzione dell’utile è scelta di politica aziendale in contrasto con questo valore.
Mutatis mutandis, alla luce dei principi testè esposti potrebbe essere utile verificare la praticabilità di un approccio ricostruttivo che consenta di annettere rilevanza, sul piano disciplinare, a condotte predatorie in quanto lesive dei valori presidiati dall’ordinamento del notariato e suscettibili di pregiudicare il corretto esercizio della professione.
Ciò, naturalmente, a patto di valutare preventivamente l’esistenza di margini di armonizzabilità di un simile approccio con l’impostazione dell’AGCM (fino ad ora avallata dalla giurisprudenza amministrativa: da ultimo, Cons. Stato, sez. V, n. 2005/19), volta ad affermare la illiceità, sotto il profilo della normativa antitrust, di qualsiasi iniziativa dei Consigli notarili che miri a sindacare i comportamenti economici dei notai in ordine alla determinazione dei compensi per le prestazioni professionali effettuate (sul tema, sia consentito rinviare ad A. BARONE, Vigilanza consiliare e normativa Antitrust, in La responsabilità del notaio tra disciplina vigente e prassi sanzionatoria, cit.).
Anselmo Barone
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[1] La legge 4 agosto 2017 n. 124 ha modificato la lettera c) dell’art. 147 L. not. eliminando il riferimento alla illecita concorrenza e prevedendo la sanzionabilità della condotta del notaio che “si serve dell’opera di procacciatori di clienti o di pubblicità non conforme ai principi stabiliti dall’art. 4 del regolamento di cui al d.p.r. 7 agosto 2012, n. 137”.