SOCIETA’ SEMPLICE E AMMINISTRATORE ESTRANEO
19.11.18
La questione dell’amministratore estraneo nelle società personali (Tribunale Udine, 29 aprile 2018)
Il Tribunale di Udine, con decreto del 29 aprile 2018, ha disposto la cancellazione immediata dal registro delle imprese della nomina ad amministratore di una società semplice di un estraneo alla compagine sociale, affermando come anche per gli altri tipi di società personali valga il medesimo principio sancito dall’art. 2318, comma 2°, c.c. e, quindi, il divieto di nominare amministratori non soci.
Secondo il Tribunale, non può che essere questa la norma residua e valevole per tutti i tipi sociali, se è vero che il legislatore ha ritenuto necessario esplicitare una deroga anche per le società per azioni (art. 2380 bis, comma 2°, c.c.: “L’amministrazione della società può essere attribuita anche a non soci”).
Sotto altro profilo, inoltre, si rileva come l’incipit dell’art. 2257, c.c., sull’amministrazione disgiuntiva (“Salva diversa pattuizione”) si riferibile solo all’ambito di tale norma e del successivo art. 2258, c.c., sull’amministrazione congiuntiva.
Infine, ulteriore argomento viene rinvenuto nell’art 2267, comma 1°, c.c. che dà per scontato che siano i soci ad agire “in nome e per conto della società” e così ad assumere, a prescindere da qualsiasi patto contrario nell’atto costitutivo, la responsabilità personale e solidale per i debiti sociali: siffatta disposizione si riferisce chiaramente alla immedesimazione organica tra amministratore (con potere di rappresentanza) e società e non è compatibile con la possibilità che la società sia invece amministrata e rappresentata da un soggetto estraneo e non responsabile dei debiti sociali
Invero, come sottolinea lo stesso Tribunale, la questione se il potere di amministrare possa essere attribuito ad un terzo non socio è tuttora dibattuta, e va dato conto del fatto che, in dottrina e in giurisprudenza, non esiste un orientamento unitario.
Una parte della dottrina, infatti, lo ammette (Campobasso, Diritto delle società, 2, 2002, 108; Costi-Di Chio, Società in generale. Società di persone. Associazione in partecipazione, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale diretta da Bigiavi, Torino, 1991, 441; Ferri, Delle società, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1982, 171; Minervini, In tema di esclusione del socio amministratore unico di collettivo, in Dir. e giur., 1947, 248; Spada, La tipicità delle società, Padova, 1974, 339; Tassinari, La rappresentanza nelle società di persone, Milano, 1993, 143; Vassalli, Responsabilità d’impresa e poteri di amministrazione nelle società personali, Milano, 1973. Vivante, Trattato di diritto commerciale, Le società commerciali, Torino, 1935, 109, secondo cui l’amministratore può essere estraneo, perché non sarebbe possibile “negare alla società, in mancanza di un espresso divieto, il diritto che spetta ad ogni subietto di diritto, di farsi rappresentare da chi gode la sua fiducia”).
Altri autori, invece, escludono la possibilità di affidare l’amministrazione di una società di persone ad estranei (Buonocore, Società in nome collettivo, in Commentario al codice civile, diretto da Schlesinger, 1995, 103; Cagnasso, La società semplice, in Trattato di diritto civile diretto da Sacco, Torino, 1998, 152; Cottino, Le società, Padova, 1999, 79; Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2001, 65; Ghidini, Società personali, Padova, 1972, 418; Salafia, Amministrazione della società e procura institoria, in Soc., 1991, 748; Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, Milano, 1942, I, 202).
Anche in giurisprudenza manca un indirizzo interpretativo costante (sono a favore della tesi dell’amministratore estraneo: Trib. Torino 8 ottobre 1984, in Soc., 1985, 497; App. Bari 1° febbraio 1960, in Giur. It., 1962, 90; in senso contrario, invece, Cass. 25 gennaio 1968 n. 218 in Giur. it., 1968, 1202, la quale ha deciso incidentalmente che gli amministratori di società di persone debbono essere necessariamente soci; Trib. Milano 22 dicembre 1983, in Soc., 1984, 790; Trib. Alessandria 25 marzo 1999, in Riv. not., 1999, 1026; Trib. Foggia 29 febbraio 2000, in Giur. It., 2001, 989; Trib. Catania, 19 dicembre 2003, in Società, 2004, 881, con nota di Fumagalli).
Quanto alle argomentazioni a sostegno dell’una o dell’altra posizione, va anzitutto rilevato come, nella disciplina delle società semplici ed in nome collettivo, manchi un’esplicita norma da cui sia possibile desumere l’ammissibilità o meno di affidare l’amministrazione ad un soggetto estraneo.
L’art. 2257, primo comma, c.c., prevede soltanto che “salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri”.
Tale disposizione può essere interpretata nel senso di riferire la “diversa pattuizione” al successivo art. 2258, c.c., con la conseguenza che i soci possono attribuire l’amministrazione soltanto ad alcuni di essi ed eventualmente con poteri disgiunti, purché, tuttavia, sia rispettato il requisito della qualità di socio nella nomina degli amministratori (in tal senso, Trib. Alessandria 25 marzo 1999, cit., 1026 e il decreto del Tribunale di Udine in rassegna).
Si è, inoltre, osservato che “il legislatore, in materia societaria, dove ha ammesso la possibilità di amministratori non soci lo ha detto espressamente (vedi art. 2380 comma 1 c.c. relativo alla società per azioni) o consentito inequivocabilmente (vedi art. 2487 comma 1 c.c. in materia di società a responsabilità limitata)” (Trib. Alessandria 25 marzo 1999, cit., 1026).
Alcuni autori, inoltre, ritengono che l’art. 2318, secondo comma, c.c., il quale prevede che “l’amministrazione della società può essere affidata soltanto a soci accomandatari”, sia applicabile per analogia alle società semplici ed in nome collettivo. Tale norma, infatti, esprimerebbe il principio secondo il quale il potere di amministrare non può essere attribuito né ad un accomandante, né, più in generale, ad un terzo (Galgano, Diritto commerciale, cit., 65).
Si tratta, in sostanza, delle argomentazioni addotte a sostegno della tesi negativa fatta propria dal decreto del Tribunale di Udine.
In contrario, tuttavia, argomentando proprio dall’art. 2318, secondo comma, c.c., si è obiettato che quando il legislatore ha voluto vietare l’attribuzione dell’amministrazione ad un estraneo, lo ha fatto espressamente (in tal senso, Ferri, Delle società, in Commentario al codice civile, a cura di Scialoja – Branca, Bologna, 1981, 130, sostiene che “in mancanza di una norma contraria e di fronte alla completa autonomia lasciata alle parti nel campo dell’amministrazione, sembra difficile negare che l’amministrazione possa essere affidata ad un non socio”. Analogamente, Bolaffi, La società semplice, Milano, 1975, 447, secondo cui «si deve ritenere che alle cariche sociali può essere chiamato anche un estraneo alla società. Nella società semplice, mancando una norma eccezionale in tal senso, la titolarità degli organi sociali può, a nostro avviso, essere affidata tanto a soci quanto a persone estranee alla società»).
Un ulteriore argomento contrario – anche questo evidenziato nella pronuncia in rassegna – è stato rinvenuto nell’art. 2267, c.c., che consente di limitare la responsabilità di chi non ha agito in nome e per conto della società, assumendo, quindi, la qualità di amministratore nei rapporti verso l’esterno. Qualora si nominassero degli amministratori estranei alla società, tutti i soci potrebbero avvalersi della limitazione di responsabilità al solo conferimento (Gambino, Impresa e società di persone, I, Torino, 2007, 153, il quale afferma che «non è consentito ai soci di affidare l’amministrazione ha un terzo non socio, in quanto si snaturerebbe una caratteristica essenziale del tipo societario, che collega la responsabilità illimitata dei soci al potere di amministrazione e in cui è essenziale è il rapporto fiduciario tra soci e amministratori garantito dalla qualità di socio–amministratore»; Ghidini, Società personali, cit., 420, secondo cui «il potere amministrativo, il potere dispositivo in genere, è riconosciuto nelle società personali soltanto favore dei soci: dei soci aventi la responsabilità illimitata, nelle società personali commerciali; mentre nella società semplice l’amministrazione può competere anche ai soci limitatamente responsabili»; Restuccia, Amministrazione e controllo nelle società personali, in Dir. Fall., 2012, I, 199 ss., che distingue tra società semplice e società in nome collettivo, escludendo l’ammissibilità dell’amministratore estraneo solo per la prima).
A questo argomento sono, però, state mosse tre critiche.
In primo luogo, tale ipotesi riguarderebbe le sole società semplici, perché nelle società in nome collettivo l’art. 2291, c.c., prevede espressamente la responsabilità illimitata e solidale di ciascun socio.
In secondo luogo, l’attribuzione ad estranei dell’amministrazione potrebbe addirittura agevolare i creditori sociali, i quali potrebbero agire sia nei confronti dei singoli soci (entro il limite del conferimento, se c’è stato il “patto contrario” ex art. 2267, c.c.), sia nei confronti degli amministratori estranei (senza alcun limite).
Si è, però, obiettato che in questo modo, per lo meno dal punto di vista della responsabilità personale, l’amministratore cesserebbe di essere un estraneo e finirebbe col diventare un socio apparente (Galgano, Diritto commerciale, cit., 65).
In terzo luogo, infine, è stato osservato che il problema della limitazione di responsabilità di tutti i soci non avrebbe ragione di esistere, perché l’art. 2267, c.c., si applica quando esistono soci amministratori e soci non amministratori. Il patto contrario con cui si esclude la responsabilità illimitata di chi non abbia agito in nome e per conto della società non sarebbe ammissibile nel caso in cui tutti gli amministratori fossero degli estranei (Tassinari, La rappresentanza, cit., 149).
Chi ritiene inammissibile l’amministratore estraneo sostiene, inoltre, che le qualifiche di amministratore e rappresentante della società spettano al socio in virtù del contratto sociale stesso, e non in forza di un distinto rapporto giuridico avente le caratteristiche strutturali del mandato. Se l’amministrazione fosse affidata ad un estraneo, quest’ultimo sarebbe un institore della società, mentre i soci conserverebbero il potere di amministrazione, che in concreto verrebbe esercitato attraverso un institore (Salandra, Manuale di diritto commerciale, Bologna, 1949, 157).
Si può, tuttavia, obiettare che nulla impedisce ai soci di ricorrere a differenti schemi negoziali, diversi dalla partecipazione societaria, in quanto la tesi sulla mancanza di autonomia causale del contratto di amministrazione mira prevalentemente ad una semplificazione della ricostruzione teorica di tale istituto (Tassinari, La rappresentanza, cit., 153).
Un ultimo argomento contrario all’ammissibilità dell’amministratore estraneo concerne la correlazione tra il potere di gestione della società e l’assunzione del rischio d’impresa.
Secondo una pronuncia giurisprudenziale, “la diretta correlazione tra potere gestorio e rischio di impresa che connota la disciplina delle società di persone implica un nesso indissolubile tra lo status di socio e la funzione amministrativa. Deve pertanto essere rifiutata l’iscrizione nel Registro delle imprese dell’atto costitutivo di una società in nome collettivo che conferisca l’incarico di amministratore ad un soggetto estraneo alla compagine sociale, rimanendo a tal fine irrilevante la circostanza che egli rivesta la qualifica di accomandatario di una società in accomandita semplice che di tale compagine fa parte” (Trib. Foggia 29 febbraio 2000, in Giur. It., 2001, 989).
Tale argomento, tuttavia, può essere criticato in quanto, poiché non esiste un principio che obblighi i soci ad amministrare direttamente, non si potrebbe sostenere che l’assunzione del rischio di impresa abbia quale presupposto necessario l’esercizio del corrispondente potere economico (Campobasso, Diritto delle società, cit., 109; Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, 118; Torrente-Ruperto, Del Lavoro, II, Commentario del Codice Civile, Torino, 1962, 105, secondo cui «all’ammissibilità non sembra che possa ostare né la disciplina del codice, posta nella previsione normale che amministratore e socio si identifichino, dato il carattere suppletivo di tale disciplina; né una assunta inscindibilità fra potere di amministrazione e responsabilità illimitata»).
In conclusione, tenuto conto della varietà delle tesi sostenute e della diversità degli argomenti addotti, non appare possibile individuare una soluzione unitaria al problema dell’attribuzione dell’amministrazione ad un soggetto estraneo alla società.
Si deve, tuttavia, tenere presente che la giurisprudenza ha finora sostenuto la tesi negativa (per Trib. Cagliari 11 novembre 2005, in Riv. Giur. Sarda, 2006, 2, 383, la nomina, da parte dei soci di una società in nome collettivo, di un amministratore terzo, investendo profili attinenti all’economia generale, “lato sensu” riconducibili all’ordine pubblico economico, lungi dal configurare un legittimo esercizio di autonomia privata, si risolve in una modifica essenziale degli elementi caratterizzanti il prescelto schema societario, non consentita e, come tale, non meritevole di alcuna tutela) e in tale solco si colloca anche il decreto del Tribunale di Udine.
Antonio Ruotolo e Daniela Boggiali
9 novembre 2018
19.11.18
La questione dell’amministratore estraneo nelle società personali (Tribunale Udine, 29 aprile 2018)
Il Tribunale di Udine, con decreto del 29 aprile 2018, ha disposto la cancellazione immediata dal registro delle imprese della nomina ad amministratore di una società semplice di un estraneo alla compagine sociale, affermando come anche per gli altri tipi di società personali valga il medesimo principio sancito dall’art. 2318, comma 2°, c.c. e, quindi, il divieto di nominare amministratori non soci.
Secondo il Tribunale, non può che essere questa la norma residua e valevole per tutti i tipi sociali, se è vero che il legislatore ha ritenuto necessario esplicitare una deroga anche per le società per azioni (art. 2380 bis, comma 2°, c.c.: “L’amministrazione della società può essere attribuita anche a non soci”).
Sotto altro profilo, inoltre, si rileva come l’incipit dell’art. 2257, c.c., sull’amministrazione disgiuntiva (“Salva diversa pattuizione”) si riferibile solo all’ambito di tale norma e del successivo art. 2258, c.c., sull’amministrazione congiuntiva.
Infine, ulteriore argomento viene rinvenuto nell’art 2267, comma 1°, c.c. che dà per scontato che siano i soci ad agire “in nome e per conto della società” e così ad assumere, a prescindere da qualsiasi patto contrario nell’atto costitutivo, la responsabilità personale e solidale per i debiti sociali: siffatta disposizione si riferisce chiaramente alla immedesimazione organica tra amministratore (con potere di rappresentanza) e società e non è compatibile con la possibilità che la società sia invece amministrata e rappresentata da un soggetto estraneo e non responsabile dei debiti sociali
Invero, come sottolinea lo stesso Tribunale, la questione se il potere di amministrare possa essere attribuito ad un terzo non socio è tuttora dibattuta, e va dato conto del fatto che, in dottrina e in giurisprudenza, non esiste un orientamento unitario.
Una parte della dottrina, infatti, lo ammette (Campobasso, Diritto delle società, 2, 2002, 108; Costi-Di Chio, Società in generale. Società di persone. Associazione in partecipazione, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale diretta da Bigiavi, Torino, 1991, 441; Ferri, Delle società, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1982, 171; Minervini, In tema di esclusione del socio amministratore unico di collettivo, in Dir. e giur., 1947, 248; Spada, La tipicità delle società, Padova, 1974, 339; Tassinari, La rappresentanza nelle società di persone, Milano, 1993, 143; Vassalli, Responsabilità d’impresa e poteri di amministrazione nelle società personali, Milano, 1973. Vivante, Trattato di diritto commerciale, Le società commerciali, Torino, 1935, 109, secondo cui l’amministratore può essere estraneo, perché non sarebbe possibile “negare alla società, in mancanza di un espresso divieto, il diritto che spetta ad ogni subietto di diritto, di farsi rappresentare da chi gode la sua fiducia”).
Altri autori, invece, escludono la possibilità di affidare l’amministrazione di una società di persone ad estranei (Buonocore, Società in nome collettivo, in Commentario al codice civile, diretto da Schlesinger, 1995, 103; Cagnasso, La società semplice, in Trattato di diritto civile diretto da Sacco, Torino, 1998, 152; Cottino, Le società, Padova, 1999, 79; Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2001, 65; Ghidini, Società personali, Padova, 1972, 418; Salafia, Amministrazione della società e procura institoria, in Soc., 1991, 748; Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, Milano, 1942, I, 202).
Anche in giurisprudenza manca un indirizzo interpretativo costante (sono a favore della tesi dell’amministratore estraneo: Trib. Torino 8 ottobre 1984, in Soc., 1985, 497; App. Bari 1° febbraio 1960, in Giur. It., 1962, 90; in senso contrario, invece, Cass. 25 gennaio 1968 n. 218 in Giur. it., 1968, 1202, la quale ha deciso incidentalmente che gli amministratori di società di persone debbono essere necessariamente soci; Trib. Milano 22 dicembre 1983, in Soc., 1984, 790; Trib. Alessandria 25 marzo 1999, in Riv. not., 1999, 1026; Trib. Foggia 29 febbraio 2000, in Giur. It., 2001, 989; Trib. Catania, 19 dicembre 2003, in Società, 2004, 881, con nota di Fumagalli).
Quanto alle argomentazioni a sostegno dell’una o dell’altra posizione, va anzitutto rilevato come, nella disciplina delle società semplici ed in nome collettivo, manchi un’esplicita norma da cui sia possibile desumere l’ammissibilità o meno di affidare l’amministrazione ad un soggetto estraneo.
L’art. 2257, primo comma, c.c., prevede soltanto che “salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri”.
Tale disposizione può essere interpretata nel senso di riferire la “diversa pattuizione” al successivo art. 2258, c.c., con la conseguenza che i soci possono attribuire l’amministrazione soltanto ad alcuni di essi ed eventualmente con poteri disgiunti, purché, tuttavia, sia rispettato il requisito della qualità di socio nella nomina degli amministratori (in tal senso, Trib. Alessandria 25 marzo 1999, cit., 1026 e il decreto del Tribunale di Udine in rassegna).
Si è, inoltre, osservato che “il legislatore, in materia societaria, dove ha ammesso la possibilità di amministratori non soci lo ha detto espressamente (vedi art. 2380 comma 1 c.c. relativo alla società per azioni) o consentito inequivocabilmente (vedi art. 2487 comma 1 c.c. in materia di società a responsabilità limitata)” (Trib. Alessandria 25 marzo 1999, cit., 1026).
Alcuni autori, inoltre, ritengono che l’art. 2318, secondo comma, c.c., il quale prevede che “l’amministrazione della società può essere affidata soltanto a soci accomandatari”, sia applicabile per analogia alle società semplici ed in nome collettivo. Tale norma, infatti, esprimerebbe il principio secondo il quale il potere di amministrare non può essere attribuito né ad un accomandante, né, più in generale, ad un terzo (Galgano, Diritto commerciale, cit., 65).
Si tratta, in sostanza, delle argomentazioni addotte a sostegno della tesi negativa fatta propria dal decreto del Tribunale di Udine.
In contrario, tuttavia, argomentando proprio dall’art. 2318, secondo comma, c.c., si è obiettato che quando il legislatore ha voluto vietare l’attribuzione dell’amministrazione ad un estraneo, lo ha fatto espressamente (in tal senso, Ferri, Delle società, in Commentario al codice civile, a cura di Scialoja – Branca, Bologna, 1981, 130, sostiene che “in mancanza di una norma contraria e di fronte alla completa autonomia lasciata alle parti nel campo dell’amministrazione, sembra difficile negare che l’amministrazione possa essere affidata ad un non socio”. Analogamente, Bolaffi, La società semplice, Milano, 1975, 447, secondo cui «si deve ritenere che alle cariche sociali può essere chiamato anche un estraneo alla società. Nella società semplice, mancando una norma eccezionale in tal senso, la titolarità degli organi sociali può, a nostro avviso, essere affidata tanto a soci quanto a persone estranee alla società»).
Un ulteriore argomento contrario – anche questo evidenziato nella pronuncia in rassegna – è stato rinvenuto nell’art. 2267, c.c., che consente di limitare la responsabilità di chi non ha agito in nome e per conto della società, assumendo, quindi, la qualità di amministratore nei rapporti verso l’esterno. Qualora si nominassero degli amministratori estranei alla società, tutti i soci potrebbero avvalersi della limitazione di responsabilità al solo conferimento (Gambino, Impresa e società di persone, I, Torino, 2007, 153, il quale afferma che «non è consentito ai soci di affidare l’amministrazione ha un terzo non socio, in quanto si snaturerebbe una caratteristica essenziale del tipo societario, che collega la responsabilità illimitata dei soci al potere di amministrazione e in cui è essenziale è il rapporto fiduciario tra soci e amministratori garantito dalla qualità di socio–amministratore»; Ghidini, Società personali, cit., 420, secondo cui «il potere amministrativo, il potere dispositivo in genere, è riconosciuto nelle società personali soltanto favore dei soci: dei soci aventi la responsabilità illimitata, nelle società personali commerciali; mentre nella società semplice l’amministrazione può competere anche ai soci limitatamente responsabili»; Restuccia, Amministrazione e controllo nelle società personali, in Dir. Fall., 2012, I, 199 ss., che distingue tra società semplice e società in nome collettivo, escludendo l’ammissibilità dell’amministratore estraneo solo per la prima).
A questo argomento sono, però, state mosse tre critiche.
In primo luogo, tale ipotesi riguarderebbe le sole società semplici, perché nelle società in nome collettivo l’art. 2291, c.c., prevede espressamente la responsabilità illimitata e solidale di ciascun socio.
In secondo luogo, l’attribuzione ad estranei dell’amministrazione potrebbe addirittura agevolare i creditori sociali, i quali potrebbero agire sia nei confronti dei singoli soci (entro il limite del conferimento, se c’è stato il “patto contrario” ex art. 2267, c.c.), sia nei confronti degli amministratori estranei (senza alcun limite).
Si è, però, obiettato che in questo modo, per lo meno dal punto di vista della responsabilità personale, l’amministratore cesserebbe di essere un estraneo e finirebbe col diventare un socio apparente (Galgano, Diritto commerciale, cit., 65).
In terzo luogo, infine, è stato osservato che il problema della limitazione di responsabilità di tutti i soci non avrebbe ragione di esistere, perché l’art. 2267, c.c., si applica quando esistono soci amministratori e soci non amministratori. Il patto contrario con cui si esclude la responsabilità illimitata di chi non abbia agito in nome e per conto della società non sarebbe ammissibile nel caso in cui tutti gli amministratori fossero degli estranei (Tassinari, La rappresentanza, cit., 149).
Chi ritiene inammissibile l’amministratore estraneo sostiene, inoltre, che le qualifiche di amministratore e rappresentante della società spettano al socio in virtù del contratto sociale stesso, e non in forza di un distinto rapporto giuridico avente le caratteristiche strutturali del mandato. Se l’amministrazione fosse affidata ad un estraneo, quest’ultimo sarebbe un institore della società, mentre i soci conserverebbero il potere di amministrazione, che in concreto verrebbe esercitato attraverso un institore (Salandra, Manuale di diritto commerciale, Bologna, 1949, 157).
Si può, tuttavia, obiettare che nulla impedisce ai soci di ricorrere a differenti schemi negoziali, diversi dalla partecipazione societaria, in quanto la tesi sulla mancanza di autonomia causale del contratto di amministrazione mira prevalentemente ad una semplificazione della ricostruzione teorica di tale istituto (Tassinari, La rappresentanza, cit., 153).
Un ultimo argomento contrario all’ammissibilità dell’amministratore estraneo concerne la correlazione tra il potere di gestione della società e l’assunzione del rischio d’impresa.
Secondo una pronuncia giurisprudenziale, “la diretta correlazione tra potere gestorio e rischio di impresa che connota la disciplina delle società di persone implica un nesso indissolubile tra lo status di socio e la funzione amministrativa. Deve pertanto essere rifiutata l’iscrizione nel Registro delle imprese dell’atto costitutivo di una società in nome collettivo che conferisca l’incarico di amministratore ad un soggetto estraneo alla compagine sociale, rimanendo a tal fine irrilevante la circostanza che egli rivesta la qualifica di accomandatario di una società in accomandita semplice che di tale compagine fa parte” (Trib. Foggia 29 febbraio 2000, in Giur. It., 2001, 989).
Tale argomento, tuttavia, può essere criticato in quanto, poiché non esiste un principio che obblighi i soci ad amministrare direttamente, non si potrebbe sostenere che l’assunzione del rischio di impresa abbia quale presupposto necessario l’esercizio del corrispondente potere economico (Campobasso, Diritto delle società, cit., 109; Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, 118; Torrente-Ruperto, Del Lavoro, II, Commentario del Codice Civile, Torino, 1962, 105, secondo cui «all’ammissibilità non sembra che possa ostare né la disciplina del codice, posta nella previsione normale che amministratore e socio si identifichino, dato il carattere suppletivo di tale disciplina; né una assunta inscindibilità fra potere di amministrazione e responsabilità illimitata»).
In conclusione, tenuto conto della varietà delle tesi sostenute e della diversità degli argomenti addotti, non appare possibile individuare una soluzione unitaria al problema dell’attribuzione dell’amministrazione ad un soggetto estraneo alla società.
Si deve, tuttavia, tenere presente che la giurisprudenza ha finora sostenuto la tesi negativa (per Trib. Cagliari 11 novembre 2005, in Riv. Giur. Sarda, 2006, 2, 383, la nomina, da parte dei soci di una società in nome collettivo, di un amministratore terzo, investendo profili attinenti all’economia generale, “lato sensu” riconducibili all’ordine pubblico economico, lungi dal configurare un legittimo esercizio di autonomia privata, si risolve in una modifica essenziale degli elementi caratterizzanti il prescelto schema societario, non consentita e, come tale, non meritevole di alcuna tutela) e in tale solco si colloca anche il decreto del Tribunale di Udine.
Antonio Ruotolo e Daniela Boggiali
9 novembre 2018