*Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 8 febbraio 2016, n. 501
Il Consiglio di Stato, sez. IV, con sentenza 8 febbraio 2016, n. 501, afferma la non operatività della prelazione ai sensi dell’art. 60 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nell’ipotesi di cessione di quota di comproprietà di un’azienda comprendente immobili di interesse culturale.
Il comma 1 del citato articolo riconosce al Ministero o, nel caso previsto dall’articolo 62, comma 3, alla regione o agli altri enti pubblici territoriali interessati, la facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali alienati a titolo oneroso o conferiti in società, rispettivamente, al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione o al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento.
Nel caso di specie, in cui il Comune ha esercitato il diritto di prelazione, l’atto negoziale è la cessione di una quota d’azienda all’interno della quale si trova, tra i vari beni, anche il bene culturale, atto rispetto al quale il Consiglio di Stato non rinviene né un trasferimento a titolo oneroso del bene culturale in quanto tale, né un conferimento dello stesso in società.
Il Consiglio di Stato evidenzia, infatti, come il trasferimento abbia avuto ad oggetto la comproprietà dell’azienda (ossia dell’intero complesso dei beni preordinati all’esercizio dell’impresa), e non singolarmente il bene culturale (o una quota di esso) “la titolarità proprietaria del quale, in capo alla impresa-complesso aziendale dei beni, allo stato, indivisi, rimane caratterizzata da inalterata continuità”.
Secondo il Consiglio di Stato, infatti, il Comune avrebbe travisato la natura del contratto, erroneamente riqualificandolo in termini di atto di “cessione di quote ereditarie di comproprietà immobiliare”, e avrebbe, quindi, esercitato la prelazione, per subentrare in un diritto (la comproprietà del bene culturale) diverso da quello oggetto del trasferimento (la quota d’azienda).
La non operatività dell’istituto della prelazione in caso di cessione d’azienda troverebbe conforto nei principi che il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare con riferimento ad un “caso che presenta molti aspetti di analogia con quello oggetto” e cioè la cessione di quote societarie relative ad un patrimonio sociale nel cui ambito si trova un bene culturale, fattispecie rispetto alla quale si è chiarito che il presupposto per l’esercizio del diritto di prelazione (il trasferimento della proprietà del bene culturale, ossia l’alienazione del bene stesso) non si verifica nei casi in cui vi sia stata l’alienazione (persino) dell’intero pacchetto azionario della società proprietaria del bene culturale; società che, come prima così dopo l’alienazione delle azioni, continua a essere la proprietaria del bene culturale, con l’unica differenza che l’intero suo pacchetto azionario non è più di un soggetto ma di un altro.
Secondo la sentenza in rassegna «Mutatis mutandis, le stesse conclusioni non possono non valere anche nella vicenda oggetto del presente giudizio, nella quale il trasferimento ha interessato una quota di un’azienda destinata all’esercizio di una impresa».
Invero, tale affermazione sembra sottendere una soggettività del complesso aziendale che non trova riscontro nella configurazione che dà la dottrina prevalente all’istituto dell’azienda, complesso di beni organizzato e non un soggetto giuridico distinto dalla persona del suo titolare (o dei suoi titolari in caso di comproprietà).
Né pare del tutto pertinente il richiamo all’ipotesi di trasferimento di quote di società titolare di un bene d’interesse culturale (sulla quale, correttamente, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2008, n. 1205), laddove l’esclusione della prelazione si giustifica in ragione del fatto che la titolarità (in capo alla società) non muta in dipendenza della cessione delle partecipazioni sociali.
E, tuttavia, la pronuncia sembra cogliere un aspetto rilevante, quello della destinazione aziendale, dell’esser parte l’immobile del complesso di beni organizzato destinato all’esercizio dell’impresa.
È discusso se la prelazione operi nel caso di trasferimento della quota indivisa di contitolarità di un bene: sebbene non manchino pronunce che escludono la prelazione in caso di trasferimento della quota di comproprietà (Cass. 21 agosto 1962, n. 2613, in Foro it., 1963, I, 303), la tesi allo stato più diffusa è che la non esercitabiltà del diritto di prelazione nel caso di quota indivisa di un immobile consentirebbe ai privati di disporre a più riprese di quote di un immobile sulla base di operazioni sempre sottratte allo strumento della prelazione, innescando un sistema per la facile elusione della norma di legge. L’acquisizione anche solo parziale della proprietà di un bene e il conseguente esercizio dei poteri di gestione nella qualità di comproprietario da parte del soggetto pubblico assicurerebbe, secondo la giurisprudenza amministrativa, la migliore tutela e l’ottimale fruizione del bene e potrebbe esser funzionale all’acquisto, in prospettiva, dell’intero (Consiglio di Stato, sez. VI, 1° ottobre 2003, n. 5705. Sul punto, v. anche BOGGIALI – LOMONACO, Ulteriori riflessioni sul codice dei beni culturali, in Studi e materiali, 2004, 716 ss., spec. 736 con ulteriori richiami dottrinari).
Ma la questione – e in questo senso sembra porsi la pronuncia in rassegna – va probabilmente diversamente riguardata con specifico riferimento all’ipotesi di bene facente parte di un complesso aziendale, anche nella prospettiva della giurisprudenza da ultimo citata, per verificare l’effettiva compatibilità dell’ingresso di un soggetto pubblico nella parziale titolarità di un bene destinato all’esercizio dell’impresa da parte di privati.